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sabato, novembre 19, 2005

Non condannate quel giudice, licenziatelo! 

Ricorderete che alcuni mesi or sono avevo preso posizione circa la vicenda del giudice del Tribunale di Camerino che da circa sei mesi non tiene udienze perché nella sua aula è esposto il crocifisso.
Ricorderete anche che per questo signore il capo del Tribunale si era mosso a compassione e gli aveva attrezzata un’aula speciale senza crocifisso, ma neppure questo indusse il giudice Tosti (di nome e di fatto) a riprendesse le udienze perché – affermava lo scioperante – egli esigeva di amministrare giustizia con alle spalle un simbolo ebraico, sua religione, e precisamente la menorhà.
Insomma, per sistemare bonariamente la questione se ne è tentate di tutti i colori, senza che il Tosti si smuovesse dalla sua posizione.
Adesso il Tribunale dell’Aquila – dove si è tenuto il procedimento contro di lui – lo ha condannato a sette mesi di reclusione, ovviamente con la sospensione condizionale, per il reato di omissione di atti d’ufficio.
Il giudice Tosti ha annunciato che non intende assolutamente arrendersi in questa sua battaglia che egli ritiene essere battaglia di civiltà; intanto continuerà a non tenere udienze in attesa dell’appello e cercherà all’interno del Tribunale altri lavori da sbrigare fuori dell’aula; quando questi lavoretti saranno finiti egli rinuncerà allo stipendio: allora significa che sinora il prode Tosti aveva percepito un regolare stipendio da giudice, pur facendo lavoretti da applicato di segreteria o giù di lì. Ma bravo!!
Debbo dire che ogniqualvolta un Tribunale emette una sentenza comprendente la carcerazione, per un reato, diciamo così, d’opinione, rimango un attimo in sospeso prima di digerire la cosa; ed anche qui – se vogliamo dirla tutta – siamo in presenza di un reato di opinione e per di più a carattere religioso che viene punito con sette mesi di reclusione, che magari il Tosti non farà mai, però ci sono e ci restano.
D’altro canto capisco anche le motivazioni che hanno indotto il giudice dell’Aquila a emettere la sentenza: di fatto il Tosti, per una sua motivazione personalissima ha omesso di amministrare giustizia, ha mancato cioè nel rapporto fiduciario prima con la gente comune e poi con i suoi superiori gerarchici.
Ma se hanno ragione entrambi come si sarebbe potuto fare? Sinceramente non lo so, ma posso suggerire due ipotesi di lavoro che avrebbero risolto la situazione; la prima si riferisce al sistema di ammissione dei giudici nei loro posti di così alta responsabilità: a questo proposito proporrei di fare come in America, cioè di procedere a vere e proprie elezioni nelle quali i candidati alla carica propongono agli elettori – che poi sono quelli che gli pagano lo stipendio – una sorta di programma da attuare in caso di vittoria.
La seconda ipotesi potrebbe essere quella di applicare lo statuto dei lavoratori e licenziare il Tosti per abbandono del posto di lavoro non sufficientemente motivato.
Nei due casi che ho ipotizzato, si evita una cosa che temo proprio possa accadere:applicar all’ineffabile Tosti l’etichetta di martire per la causa; ed infatti se ne sono già visti i prodromi all’uscita dall’aula di giustizia: il Tosti è stato applaudito da una serie di persone, uomini politici – in testa Pannella – e da alcune associazioni laiciste e anticlericali; ma non basta, pensate un poco che ad osannare il Tosti c’erano anche i raeliani, una sorta di setta che è convinta della discendenza dell’uomo dagli alieni: ma cosa c’entrano col crocifisso??

venerdì, novembre 18, 2005

Zibaldone n.13/2005 

Il precedente “zibaldone” l’avevo realizzato a fine estate e adesso che arrivano i primi freddi vorrei metterne un altro on-line per tre argomenti che hanno destato il mio interesse e dei quali intendo parlare con voi.
Il PRIMO si riferisce alla notizia di provenienza del Consiglio dei Ministri, secondo la quale il governo ha approvato un decreto che impone a tutte le forze politiche l’immissione nelle sue liste di “almeno” il 33% di donne; coloro che non si atterranno a questa norma avranno ridotti i rimborsi elettorali.
Una mia considerazione: fin quando le donne staranno a quello che gli uomini faranno per loro non otterranno mai quella parità che loro invocano, anzitutto perché – da quel che ho avuto modo di conoscere – le donne sono di gran lunga superiori – e quindi non pari - agli uomini in quasi tutti i settori della vita e poi perché (e questo non è opinabile) sono più numerose.
Quindi esse dovrebbero affrontare il problema e cercare di risolverlo in modo anche “rivoluzionario”, ma comunque risolverlo loro e non aspettare che siano gli altri (cioè i maschietti) a risolverlo.
Il SECONDO riguarda ancora le donne, ma non viste in ambito politico, ma in quanto esseri umani di sesso femminile; vorrei premettere che tra i miei interessi specifici la donna è stata da sempre al primo posto, forse anche con qualche concezione maschilista (della quale chiedo venia) ma in testa ai miei pensieri ci sono sempre le donne; al secondo la cultura e il cinema, al terzo l’arte, al quarto i cavalli.
Da loro però mi sarei aspettato una maggiore chiarezza per quanto riguarda i rapporti con l’altro sesso: sento parlare in continuazione di “amore”, di “innamoramenti” e queste situazioni dopo 15, massimo 30 giorni sfumano nel nulla: l’amore se ne è andato, ci vuole pazienza, mi sento dire da questa sorta di calendari viaggianti che sono le nostre pin-up ed i loro compagni muscolosi e palestrati.
Mi limiterò allora a dare una mia definizione di amore, non pretendendo certo di avere la verità assoluta, ma soltanto di dare un contributo di chiarezza all’interno di questi rapporti: “amore è completa dedizione all’altro senza aspettativa di contraccambio”. Sono sicuro che mi considererete vecchio e sorpassato, ma vi assicuro che non è così e vi assicuro anche che questa definizione è l’unica che possa stare in piedi all’interno di un rapporto che deve, per forza di cose, prevedere delle rinunce e dei sacrifici; le altre cose che avvengono all’interno della coppia – lodevolissime e molto interessanti – sono “sesso” e non c’entrano con l’amore se non in forma decisamente marginale.
Diciamo piuttosto che abbiamo anche un certo timore a imbarcarsi in una situazione che vediamo andare verso l’amore, quell’amore folle e totale che ci acceca e ci rende tanto vulnerabili; ma è questo l’amore, non chiamate un suo succedaneo, ripeto bello e piacevolissimo, con lo stesso nome, perché non è la stessa cosa.
Il TERZO riguarda un argomento completamente diverso da quelli sinora trattati: Silvio Berlusconi chiederà ad ogni candidato da inserire nelle liste un contributo alle spese elettorali del partito di 50.000 euro, che potrebbero salire a 70.000 in caso di collocazione nei primi posti della lista che sono, come è noto, i più ambiti in quanto considerati “blindati” per il risultato finale.
Pensierino della sera: “gli aspiranti onorevoli vengono considerati alla stessa stregua dei concessionari di auto, ai quali la casa madre chiede una quota proporzionale alle macchine vendute, quale contributo alla campagna pubblicitaria nazionale”.

Ricchi e poveri 

Voglio informarvi circa una cosa della quale non so quale sia il vostro grado di conoscenza: il ministro degli esteri del Dubai, Sheikh Mohammed, fra le sue tante passioni – beato lui che può permettersele – annovera anche quella dei cavalli da corsa; ne sono a conoscenza in quanto anch’io, molto più modestamente ed in ruoli ben diversi, ho questa passione: chiarisco subito che la mia è passione soltanto per il cavallo e non per il gioco che vi sta dietro, infatti io non ho mai giocato un centesimo né al totalizzatore e neppure presso gli allibratori, fra i quali ci sono alcuni miei amici.
Ma torniamo al nostro Sheikh Mohammed che da circa dieci anni nel mondo dell’ippica, ha subito rivoluzionato i prezzi dei cavalli, portandoli a quotazioni da capogiro; pensate che quest’anno, alle aste dei cavalli yearlings (cioè di un solo anno di età) tenutesi in Inghilterra ed a quelle americane, ha investito su questi “presunti campioni” cifre unitarie che in qualche caso hanno superato i 5 milioni di dollari (circa 9 miliardi di lire) per poi ricorrere agli acquisti di cavalli già fatti e spendere altri miliardi: si dice che nelle ultime tre stagioni abbia speso l’ammontare del bilancio di alcuni paesi africani medio/piccoli.
Per onestà di informazione dobbiamo aggiungere che i risultati di tutta questa munificenza non sono stati alla sua altezza: nonostante abbia un buonissimo allenatore ed un fantino (l’italiano Lanfranco Dettori) che è forse il numero uno al mondo, non ha fatto quegli sfracelli che lui si aspettava; da notare che nel mondo dei cavalli gli è stato appioppato il soprannome di “Moratti dell’ippica”.
Sheikh Mohammed non è il solo “Paperone” del mondo arabo che sia entrato nel mondo dell’ippica, buttando letteralmente dalla finestra i propri denari solo per vedere in quale mattonella atterrano; volete altri nomi? Eccoli: Hamdam al Maktoum, Kalid Abdullah, Maktoum al Maktoum, oltre al capostipite di tutti i ricconi spendaccioni e cioè l’Aga Khan.
Ma tutto questo cosa c’entra, direte voi, questo signore ha i soldi, che poi gli provengono dal petrolio e se li spende come meglio crede.
Se siete d’accordo su questa affermazione potete smettere di leggere quello che segue, perché io non lo sono affatto; non sono d’accordo che in questo nostro mondo possano esistere così tante macroscopiche dissonanze tra chi possiede tutto quello che vuole e chi non ha niente; non sono d’accordo che questi signori del petrolio – che non hanno poi fatto niente per guadagnare tutte i soldi che possiedono – detengano per se e solo per se una risorsa energetica mondiale che soltanto la poca lungimiranza (o forse l’acquiescenza) dei governanti degli ultimi cento anni ha reso determinante per qualsiasi paese che voglia svilupparsi.
E non sono neppure d’accordo che i “sudditi” di questo signore (cioè gli abitanti del Dubai) continuino a sopportare questa profonda e immorale ingiustizia: Mohammed che spende per i suoi cavalli quanto sarebbe sufficiente per sfamare tutti i bambini africani, per non parlare di quelli del Dubai, che non è poi tanto lontano dagli standard africani.
Non sono d’accordo, non sono d’accordo, ma e dopo avere detto e ripetuto questa sorta di slogan cosa possiamo fare? C’è la possibilità di poter incidere in qualche modo sui comportamenti aberranti che vanno a cozzare con la povertà più spaventosa?
Non abbiamo molte armi a disposizioni, forse soltanto quella del voto, ma non credo che sia sufficiente: forse fanno più dieci giorni di macchine bruciate nelle banlieu parigine che un cambio della guardia nei governi europei; forse… ma non sono mica poi tanto sicuro.
E voi?

martedì, novembre 15, 2005

Un bambino = una vacca 

L’accostamento del bambino con la vacca deriva da una questione puramente economica; adesso ve la spiego: la U.E. paga agli allevatori europei un importo di due dollari al giorno per ogni capo di bestiame allevato; in molti paesi africani i bambini vengono venduto alla stessa cifra, ma forse anche qualcosa meno; comunque ci sono delle situazioni nelle quali la cifra di 60 dollari al mese (cioè due dollari al giorno) non raggiunge il reddito medio pro-capite e quindi è inferiore alla vacca.
Quando ho appreso la notizia ed ho fatto le mie riflessioni, mi sono subito fortemente incazzato, per due ordini di motivi: il primo è perché vedo confermato quanto da me, pensato ed anche scritto molte volte, e cioè che l’Europa altro non è che un carrozzone adibito ad un magna magna generale ed è, soprattutto, un carrozzone che accoglie una pletora di funzionari anch’essi dediti allo sport nazionale, cioè al “tengo famiglia” e quindi cerco di accaparrare più che posso.
Pensate che del bilancio agricolo generale, che come potete supporre facilmente è assai pingue, c’è uno stato, la Francia, che se ne accaparra il 25% in virtù di accordi siglati all’atto della nascita degli accordi europei ed improntati a rapporti puramente di forza.
Il secondo ordine di motivi è direttamente collegato al bambino che con due dollari giornalieri potrebbe avere una vita quasi dignitosa, insieme al padre ed alla madre ed è invece costretto o a tentare la fortuna all’estero, facendo la traversata su un marcio barcone in compagnia di babbo e mamma e di tanti altri disperati come loro, oppure a fare il guerrigliero al soldo di uno dei tanti signori della guerra.
Come possiamo continuare a pensare che questi individui (siano essi padri o figli) abbiano ancora il buon gusto di venire da noi per fare dei lavori “ingrati” o, in assenza di questi, per integrarsi con la malavita o con l’integralismo religioso.
Ma possiamo onestamente continuare a stigmatizzare questi uomini o donne che cercano onestamente o meno di emancipare la loro famiglia; e ricordiamoci che se continueranno a chiedere l’elemosina agli incroci con il bicchierino di plastica, dobbiamo solo ringraziarli che non chiedano – o meglio pretendano – quello che dovrebbe spettargli di diritto.
Da parte nostra cerchiamo di insegnar loro come progredire e mettersi al passo con i tempi; tali insegnamenti funzionano meglio se sono accompagnati da specifiche testimonianze come, per esempio, quei 5.000 signori che in pochi anni avevano combinato una macroscopica truffa ai danni dell’INPS per una storia di falsa disoccupazione di braccianti siciliani (per la precisione in provincia di Catania); guadagno complessivo dell’amena combriccola : 15 milioni di euro, cioè 30 miliardi del vecchio conio.
Pensate che uno dei facenti parte della banda dei finti disoccupati, lavorava regolarmente in Belgio e capitava saltuariamente a Catania per apporre la sua firma in qualche registro dell’Istituto.
Come si può insegnare ai bravi africani che per raddoppiare le entrate si può anche rubacchiare ad un Istituto che è poi di proprietà “di tutti”; come si può raccomandare loro di ingegnarsi per trovare qualche strada traversa, tanto se stanno ad aspettare gli aiuti dell’occidente stanno freschi:
Comunque parlandone con Voi mi è un po’ passata l’incazzatura in quanto mi sembra di condividere il problema con altre persone amiche che, all’occorrenza, mi possono fornire validi suggerimenti che io trasferirò agli affamati africani, prima che vengano tutti qua da noi a sfamarsi alle nostre tavole, come avrebbero diritto.

E adesso parliamo di cultura 

Una quindicina di giorni fa (esattamente il 7 novembre) ho messo on-line un post nel quale cercavo di ragionare su come è diventata la gente da vent’anni a questa parte (e concludevo pessimisticamente); in quel primo post focalizzavo la mia attenzione sul rapporto con i mezzi di comunicazione di massa, riservandomi di affrontare il problema della cultura in un prossimo intervento; ed è quello che sto facendo.
Anzitutto diamo la definizione di cultura e per questo ci facciamo assistere dal solito Devoto-Oli che alla voce relative la definisce così: “sintesi armonica delle cognizioni di una persona con la sua sensibilità e le sue esperienze”; veramente una bella e calzante definizione.
Forse non è corretto, ma voglio proprio partire da quel concetto di “cognizioni” di cui si parla: evidentemente queste si acquisiscono in massima parte nello studio – scolare e personale – e quindi è interessantissimo notare quanto ha rilevato una recente indagine dell’UNLA (Unione nazionale lotta all’analfabetismo) condotta sulla base degli ultimi dati Istat.
Da questa ricerca risulta che – fatta uguale a 100 la base – 7,5 individui sono laureati, quasi 26 hanno un diploma di scuola media superiore, 30 sono in possesso della sola licenza media e 36,5 non hanno nessun titolo o sono addirittura analfabeti ufficiali (il numero di questi ultimi assomma a 6 milioni, 12%); fra i trenta Paesi più istruiti l’Italia occupa il terzultimo posto, prima soltanto di Portogallo e Messico.
Con questo spaccato è molto arduo parlare di cultura, ma questo è il compito e quindi andiamo avanti; noi che siamo stati la patria di tanti uomini eccezionali che tutto il mondo ci invidia – cito solo Dante e Leonardo – abbiamo adesso una certa carenza di cervelloni; per quanto riguarda il nostro “trastullo” preferito, dobbiamo rilevare che le trasmissioni a sfondo scientifico/culturale come quelle di Angela, hanno un ottimo ascolto, a dimostrazione che c’è interesse: che vorrà dire?.
Per quanto riguarda la letteratura si assiste a fenomeni incomprensibili per cui i “best-sellers” da qualche tempo si chiamano “Il Codice Da Vinci” e, accanto il quasi porno “100 colpi di spazzola…” di Melissa P, facendo così registrare uno schizofrenico andamento sulle mode del momento.
Nel cinema abbiamo forse le cose peggiori: fermo restando che non ci sono più i maestri di una volta – Fellini, Bergman, Pasolini, Visconti, ecc. – i gusti del pubblico si vanno orientando verso una visione dettata da un sostanziale disimpegno, per la serie “vado a passare un paio d’ore e a rilassarmi”; se controlliamo la “dozzina d’oro” indice di frequenza nei cinema italiani, accanto al fenomeno Benigni (che è già in grosso calo) imposto da una distribuzione mostruosa (sembra che sia uscito in oltre 600 copie), abbiamo il vuoto, anche se adesso l’ultimo film di Pupi Avati sembra scalare un po’ la classifica.
Voglio concludere raccontandovi un fatterello: la settimana scorsa un gruppetto di amici mi ha invitato a proiettare in casa di uno di loro un film di Bergman e a fare la successiva “lettura”; ho portato una cassetta con “Il Volto”, un film del 1956 e la serata è andata benissimo, in particolare la spaghettata che è seguita al momento culturale.
Tutti hanno detto che il film – bianco e nero, piuttosto scuro come tono, pochissimo parlato – è indubbiamente difficile da comprendere, ma dopo la mia “spiegazione” tutto è stato chiaro e hanno apprezzato la pellicola del grande maestro svedese.
Ho ribattuto con una semplice affermazione: se proiettiamo questo film in un cinema pubblico, i pochi spettatori inferociti, spaccano le sedie, picchiano il proiezionista e sodomizzano la cassiera: siete d’accordo?

lunedì, novembre 14, 2005

Due donne 

Proprio ieri l’altro ho fatto un post sulle donne e sulla loro emancipazione; proprio oggi leggo sui maggiori quotidiani due notizie che le riguardano e – poiché, come detto, entrambe riguardano una donna – le mettono tipograficamente vicine, quasi ad accostarne i singoli significati.
Vediamole queste due donne di cui tanto si parla e poi facciamo – se del caso – qualche commento sopra: la prima è la signora Adele Parrillo, convivente del regista Stefano Rolla, deceduto a Nassirya – dove si trovava per i sopraluoghi per un documentario sulla missione italiana in Iraq – in occasione del noto attentato alle nostre truppe avvenuto il 12 novembre di due anni fa; allo scadere dell’anniversario le Forze Armate hanno organizzato al Vittoriano una messa ed una commemorazione riservata ai familiari dei caduti.
La signora Parrillo, ripeto convivente e non moglie del defunto Rolla, si è presentata insieme agli altri familiari, ma è stata villanamente (a suo dire) respinta ed anche brutalmente strattonata (sempre a suo dire), fino a farla finire a terra.
Molti sono intervenuti in suo favore, a cominciare dal Ministro delle Pari Opportunità, Stefania Prestigiacomo, che ha invitato le istituzioni ad essere più attente al dolore; sono belle parole ma temo che lasceranno il tempo che trovano, in quanto dopo un paio di giorni tutti si dimenticheranno e l’unica che ancora si ricorderà dell’accaduto è la povera signora Adele, ennesima vittima dell’ottusa burocrazia che specie nelle Forze Armate deve essere una delle caratteristiche peculiari; una battuta: l’agente che l’ha villanamente cacciata dal Vittoriano è una donna; non si dirà che c’è favoritismi tra donne!
La seconda donna che ha l’onore delle prime pagine si chiama Sajida Al Rishawi ed è una terrorista irachena, che nell’attentato di Amman ha visto morire il marito mentre lei si è salvata perché il suo giubbotto esplosivo non è scoppiato.
La signora Sajida ha confessato – non solo alle autorità di polizia ma anche alle telecamere di mezzo mondo – di essere entrata con il marito nell’hotel Radisson Sas dove era in corso un banchetto di nozze e di essersi divisa da lui per farsi scoppiare uno alla volta; afferma inoltre di aver visto il coniuge saltare in aria – purtroppo insieme a tanti altri invitati e parenti degli sposi (questo lo dico io e non lei) – e di aver cercato di far azionare il meccanismo per il suo giubbotto esplosivo, ma per un cattivo funzionamento, il meccanismo non ha funzionato.
Indovinate cosa ha fatto allora l’ineffabile signora Sapida? È fuggita come tutti gli altri, come i superstiti di questo barbaro e vigliacco attentato, salvo poi dichiarare di fronte alle telecamere: “Mio marito è saltato, mentre io ho fallito, sono fuggita”.
Prima considerazione: possibile che nei paraggi non ci fosse un artificiere che le potesse riparare il giubbotto e, dopo averla accompagnata in un prato isolato, farle provare il meccanismo accomodato.
Seconda considerazione: quale è il motivo che ha spinto il regime giordano a “intervistare” una terrorista ed a immettere questa intervista nel circuito internazionale in modo che quasi tutte le televisioni del mondo potessero metterla in onda?
Colpevoli i giordani, ma colpevoli anche tutti noi che abbiamo acquistato il filmato e successivamente messo in onda: ormai mi sembra che sia stato chiarito che in questi casi l’elemento principale è l’effetto emulazione.
Ho messo insieme queste due donne, ma soltanto per mostrarne le caratteristiche diverse: da una parte una “vedova” che gli altri non vogliono riconoscere, dall’altra una ottusa “vedova” che riesce a vedere soltanto dolore e morte; poveretta, provo per lei soltanto una profonda pietà.

domenica, novembre 13, 2005

Ma della rivolta di Parigi non se ne parla più? 

Uso il termine più conosciuto e più stereotipato di “rivolta di Parigi”, ma dovrei dire “di Francia” o meglio ancora “di Francia, Belgio e Germania”.
Chiarito questo, noto sui quotidiani un progressivo disimpegno dall’evento, mentre tra le righe si continua ad apprendere delle cifre impressionanti: il ritmo delle auto incendiate in Francia resta costante a 500 per notte anche adesso che è in vigore il coprifuoco; e la “moda” è arrivata anche in Belgio, dove si segnalano vari incendi di auto e di edifici pubblici e in Germania, segnatamente a Berlino, dove avvengono le stesse cose.
Sembra che cominci una sorta di tam-tam tra i giovani ribelli che si servono degli S.M.S. per comunicarsi – in codice – gli spostamenti notturni e le zone da investire: potenza delle nuove tecnologie che sostituiscono il vecchio “portaordini” con strumenti più moderni ma al tempo stesso più controllabili.
I nostri intellettuali invece si cimentano in altissime masturbazioni mentali circa le cause che hanno dato origine a queste manifestazio0ni di rivolta; l’unico che mi è sembrato abbastanza in linea con la verità – almeno quella che si conosce – è Massimo Fini che imputa la rivolta francese ad una sorta di battaglia contro “il sogno occidentale”.
Egli afferma che questa rivolta è a-politica, a-ideologica e a-religiosa e non trarrebbe origine neppure nell’emarginazione e nella miseria in quanto le banlieu parigine non sono affatto miserabili ma ben ordinate e abbastanza fornite di servizi sociali; sono inoltre ben collegate al centro della città da un’ottima rete di metropolitane.
E allora? Allora, la rivolta sarebbe contro il “sogno occidentale”, sogno a sua tempo sognato dai loro genitori e che questi giovai magrebini e non, ma nati in Francia, hanno capito che chiede prezzi esistenziali sempre più alti per poi non dare in cambio nulla di apprezzabile, tantomeno quell’equilibrio e quell’armonia di cui hanno memoria dai racconti dei loro genitori riguardanti la vita che vivevano nei loro pur poveri Paesi.
Nell’ipotesi poi di una estensione della rivolta ad altri giovani europei, si può ipotizzare che alle spalle del famigerato “sogno occidentale” questi giovani intravedano la possibilità che debba essere esistito un mondo meno stressante e insensato di questo che viene presentato loro come “il migliore possibile”.
Se così è stiamo freschi! Ma la mia mente, sempre rivolta a cogliere delle immagini di ritorno, mi porta a ricordarmi e a ricordarvi un vecchio film americano del 1969 (che prese anche l’Oscar se non ricordo male) dal titolo “Non si uccidono così anche i cavalli?” di Sydney Pollack, interpretato da una giovanissima Jane Fonda.
In questo film si narra la storia di una maratona di ballo che è in pratica una gara ad eliminazione (chi non ce la fa più si ritira) articolata su vari giorni – notte e giorno – in cui le coppie di esibiscono davanti ad un pubblico pagante che prende a sostenere una coppia invece di un’altra e ci scommette sopra pure dei soldi; anche qui in teoria c’è un grosso premio finale – per chi ci arriva – ma nella realtà, la struttura organizzativa taglieggia tanto questa cifra da renderla quasi ridicola; ed ecco la tematica: “l’uomo viene spremuto come un limone, da lui vengono richieste sempre maggiori e migliori prestazioni, con la prospettiva di vincere un bel premio, ma in realtà questo premio non esiste e tutto viene fatto in funzione della struttura che organizza l’evento che è poi la sola a guadagnarci sopra”.
Forse non è facile trovarne una copia, ma se ci riuscite vedetelo perché anche a distanza di 36 anni mi sembra sempre attualissimo.

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