sabato, marzo 19, 2011
IL PROBLEMA GHEDDAFI
Le rivolte nei Paesi che si affacciano sul Mediterraneo stanno concludendosi tutte in favore degli insorti, con il vecchio regime che è fuggito all’estero oppure è stato imprigionato: in Libia, invece, il colonnello Gheddafi, ha dato fondo a tutte le sue risorse militari e sta contrattaccando i ribelli che stanno perdendo terreno e, quello che più conta, si registrano tante vittime tra i civili inermi e indifesi.
Il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha emanato una direttiva che impone una “no-fly-zone” sulla Libia; in concreto, è un divieto agli aerei del Rais di alzarsi in volo e bombardare o mitragliare gli insorti: adesso è la NATO che deve prendere una decisione per attuare la direttiva, ma non sarà facile trovare i Paesi che s’incarichino di questa operazione.
Tanto per cominciare, il buon Gheddafi usa la stessa tattica di sempre che potremmo definire “una bianca e una nera”, cioè manda minacce di sabotare il petrolio ed il gas libico e di destinare – in un prossimo futuro – tutta la sua produzione al cliente più appetito da tutte le Nazioni: la Cina; dall’altra afferma che i contratti in essere con i vari Paesi occidentali (in particolare quello con l’E.N.I.) non verranno messi in discussione e quindi non ci saranno cambiamenti.
A proposito di “energia”, anche in questo caso i problemi nascono dall’impellente necessità di tutti i Paesi di gestire le fonti energetiche; a tale riguardo, vi ricorderete la famosa “guerra” scatenata da Bush contro l’Irak ufficialmente per scovare le armi di distruzione di massa (ovviamente non rinvenute), ma ufficiosamente (così fu detto da tutti gli analisti politici) per accaparrarsi il petrolio iracheno.
Ebbene, a distanza di qualche anno i governi che si succedettero a Saddam, per dimostrare la loro autonomia nei confronto degli “invasori”, diedero le concessioni petrolifere a tutti fuorché agli americani e, in quel caso, le compagnie che ne approfittarono maggiormente si chiamavano Shenhua Oil, Sinochen, Unipec e China offshore, cioè quattro compagnie cinesi che hanno provveduto – e stanno provvedendo tuttora - a imbarcare il petrolio iracheno e trasferirlo in Cina, quella Cina che si era furbescamente astenuta dal partecipare al conflitto e non aveva quindi speso un centesimo in quella guerra che agli americani era costata invece un trilione di dollari e molte migliaia di morti; e non è ancora finita…
Quindi, intervenire in Libia potrebbe rivelarsi un tragico errore strategico, anche perché gli insorti si sgolano a dire di non volere interventi esterni e quindi ogni nostra mossa (dell’occidente intendo) potrebbe essere vista come un nuovo tentativo di invasione ai fini di un ritorno a pratiche di colonizzazione ben conosciute.
Per quanto ci riguarda come Nazione, dobbiamo ricordare che l’Italia ha un rapporto “privilegiato” con Gheddafi, messo in piedi non solo per motivi “energetici”, ma anche per tentare di arginare gli sbarchi dei clandestini a Lampedusa; a questo fine è stato stipulato un “patto di amicizia” con la Libia, operazione della quale gli amici del centrosinistra ebbero a contestarne al Governo la primogenitura, ricordandogli che le basi di quel patto erano state poste da Prodi e D’Alema; ovviamente, come accade in questi casi, oggi che Gheddafi, da personaggio folcloristico è tornato ad essere quel dittatore sanguinario che governa la Libia da ben 42 anni, si registra un fuggi fuggi generale e tutti fanno finta di non averlo neppure mai conosciuto.
Ma ricordiamoci che la Libia è anche lo stato africano più ricco, con tutto quello che ciò significa per tutti noi; quindi, occhio alle mosse che si fanno e speriamo bene!!
Il Consiglio di sicurezza dell’ONU ha emanato una direttiva che impone una “no-fly-zone” sulla Libia; in concreto, è un divieto agli aerei del Rais di alzarsi in volo e bombardare o mitragliare gli insorti: adesso è la NATO che deve prendere una decisione per attuare la direttiva, ma non sarà facile trovare i Paesi che s’incarichino di questa operazione.
Tanto per cominciare, il buon Gheddafi usa la stessa tattica di sempre che potremmo definire “una bianca e una nera”, cioè manda minacce di sabotare il petrolio ed il gas libico e di destinare – in un prossimo futuro – tutta la sua produzione al cliente più appetito da tutte le Nazioni: la Cina; dall’altra afferma che i contratti in essere con i vari Paesi occidentali (in particolare quello con l’E.N.I.) non verranno messi in discussione e quindi non ci saranno cambiamenti.
A proposito di “energia”, anche in questo caso i problemi nascono dall’impellente necessità di tutti i Paesi di gestire le fonti energetiche; a tale riguardo, vi ricorderete la famosa “guerra” scatenata da Bush contro l’Irak ufficialmente per scovare le armi di distruzione di massa (ovviamente non rinvenute), ma ufficiosamente (così fu detto da tutti gli analisti politici) per accaparrarsi il petrolio iracheno.
Ebbene, a distanza di qualche anno i governi che si succedettero a Saddam, per dimostrare la loro autonomia nei confronto degli “invasori”, diedero le concessioni petrolifere a tutti fuorché agli americani e, in quel caso, le compagnie che ne approfittarono maggiormente si chiamavano Shenhua Oil, Sinochen, Unipec e China offshore, cioè quattro compagnie cinesi che hanno provveduto – e stanno provvedendo tuttora - a imbarcare il petrolio iracheno e trasferirlo in Cina, quella Cina che si era furbescamente astenuta dal partecipare al conflitto e non aveva quindi speso un centesimo in quella guerra che agli americani era costata invece un trilione di dollari e molte migliaia di morti; e non è ancora finita…
Quindi, intervenire in Libia potrebbe rivelarsi un tragico errore strategico, anche perché gli insorti si sgolano a dire di non volere interventi esterni e quindi ogni nostra mossa (dell’occidente intendo) potrebbe essere vista come un nuovo tentativo di invasione ai fini di un ritorno a pratiche di colonizzazione ben conosciute.
Per quanto ci riguarda come Nazione, dobbiamo ricordare che l’Italia ha un rapporto “privilegiato” con Gheddafi, messo in piedi non solo per motivi “energetici”, ma anche per tentare di arginare gli sbarchi dei clandestini a Lampedusa; a questo fine è stato stipulato un “patto di amicizia” con la Libia, operazione della quale gli amici del centrosinistra ebbero a contestarne al Governo la primogenitura, ricordandogli che le basi di quel patto erano state poste da Prodi e D’Alema; ovviamente, come accade in questi casi, oggi che Gheddafi, da personaggio folcloristico è tornato ad essere quel dittatore sanguinario che governa la Libia da ben 42 anni, si registra un fuggi fuggi generale e tutti fanno finta di non averlo neppure mai conosciuto.
Ma ricordiamoci che la Libia è anche lo stato africano più ricco, con tutto quello che ciò significa per tutti noi; quindi, occhio alle mosse che si fanno e speriamo bene!!
giovedì, marzo 17, 2011
DOPO IL GIAPPONE CHE SI FA?
Alcuni anni addietro, l’OMS dedicò la giornata mondiale della sanità al tema dei disastri e, in quell’occasione, uscì lo slogan: “se i disastri dovessero colpire, siate preparati”; con questa frasi s’intendeva ricordare ai Governi dell’intero Pianeta, che i disastri non avvertono quando arrivano e che pertanto occorre prevedere misure adeguate per attenuarne gli effetti.
Il Giappone sotto questo specifico aspetto è stato esemplare: grattacieli, strade, ferrovie, metropolitane, hanno retto l’urto di questo mega-terremoto facendo soltanto poche decine di vittime: le migliaia di vittime sono dovute allo tsunami che ha investito le coste: la gente è stata esemplare – un po’ per insegnamenti ma anche per struttura mentale – ed ha mostrato la propria compostezza, senza panico, senza vittimismo, ma con grande spirito di solidarietà ed unità.
Il terzo aspetto dell’immane disastro è quello ancora in corso ed ha un macabro nome: radiazione nucleare per effetto di un guasto a qualcuna delle oltre 50 centrali atomiche che il Giappone ha costruito sul proprio territorio e che avrebbero retto tutte molto bene, ad esclusione di quella situata a Fukushima il cui impianto sembra dare i problemi più preoccupanti, tant’è vero che è stata ordinata l’evacuazione della popolazione in un raggio di trenta chilometri (ma potrebbe aumentare).
Ecco, questo evento è stato l’unico che ha scosso la flemma degli orientali che si sono indotti a chiedere assistenza agli americani che, in queste tecnologie, sembrano essere dei maestri per tutti. Sull’onda di questo tragico accadimento, in tutto il mondo si è sparsa la paura per il nucleare e si sono sprecate dichiarazioni di politici su questo argomento: gloi USA e la Francia non hanno fatto una piega confermando la propria vocazione “nuclearistica” mentre la Germania si è mostrata più cauta, ordinando la chiusura degli impianti che superano i 40 anni di “lavoro” (misura quanto meno ovvia).
In Italia – uno dei pochi Paesi a non avere impianti atomici – si sta discutendo della riapertura di alcune centrali e quindi i pro e i contro all’iniziativa si stanno moltiplicando sull’onda dell’emozione di quanto potrebbe accadere in Giappone. (è di oggi una dichiarazione del Governo che s’impegna a subordinare l’istallazione delle centrali all’assenso delle Regioni interessate: è già qualcosa!).
Mi sembra però che eventuali schieramenti nucleare-si/nucleare-no, dovrebbero tenere conto della pericolosità – anche per noi – delle svariate centrali che abbiamo ai nostri confini. Il problema, a mio modo di vedere, andrebbe affrontato in forma più “globale”, nel senso che l’intera umanità dovrebbe chiedersi “dove vogliamo andare”; mi spiego meglio: se è vero, come è vero, che per lo sviluppo della nostra civiltà così come è attualmente impostata, l’energia è un elemento essenziale, credo che – fatto salvo il comparto delle energie alternative (assolutamente non sufficiente) – sia il petrolio/gas che il carbone abbiano una vita limitata (50 anni il primo, 100 il secondo), per cui il nucleare diventa “indispensabile”. Ma sia chiaro: indispensabile a questo modello paranoico dello sviluppo, un modello che pretende uno sviluppo continuo e costante del prodotto dei singoli Stati, pena il declassamento e la conseguente crisi.
Se invece si imparasse “tutti” a ragionare in modo diverso e ad “accontentarci” di meno cose da possedere (la più parte superflue) forse si potrebbe affrontare lo sviluppo con una diversa impostazione; si diceva che solo una guerra o comunque un grosso evento traumatico può indurre la gente a mutare abitudini: ebbene, questo potrebbe essere il caso che c’induce a riflettere sul futuro che vogliamo per i nostri figli e nipoti.
Il Giappone sotto questo specifico aspetto è stato esemplare: grattacieli, strade, ferrovie, metropolitane, hanno retto l’urto di questo mega-terremoto facendo soltanto poche decine di vittime: le migliaia di vittime sono dovute allo tsunami che ha investito le coste: la gente è stata esemplare – un po’ per insegnamenti ma anche per struttura mentale – ed ha mostrato la propria compostezza, senza panico, senza vittimismo, ma con grande spirito di solidarietà ed unità.
Il terzo aspetto dell’immane disastro è quello ancora in corso ed ha un macabro nome: radiazione nucleare per effetto di un guasto a qualcuna delle oltre 50 centrali atomiche che il Giappone ha costruito sul proprio territorio e che avrebbero retto tutte molto bene, ad esclusione di quella situata a Fukushima il cui impianto sembra dare i problemi più preoccupanti, tant’è vero che è stata ordinata l’evacuazione della popolazione in un raggio di trenta chilometri (ma potrebbe aumentare).
Ecco, questo evento è stato l’unico che ha scosso la flemma degli orientali che si sono indotti a chiedere assistenza agli americani che, in queste tecnologie, sembrano essere dei maestri per tutti. Sull’onda di questo tragico accadimento, in tutto il mondo si è sparsa la paura per il nucleare e si sono sprecate dichiarazioni di politici su questo argomento: gloi USA e la Francia non hanno fatto una piega confermando la propria vocazione “nuclearistica” mentre la Germania si è mostrata più cauta, ordinando la chiusura degli impianti che superano i 40 anni di “lavoro” (misura quanto meno ovvia).
In Italia – uno dei pochi Paesi a non avere impianti atomici – si sta discutendo della riapertura di alcune centrali e quindi i pro e i contro all’iniziativa si stanno moltiplicando sull’onda dell’emozione di quanto potrebbe accadere in Giappone. (è di oggi una dichiarazione del Governo che s’impegna a subordinare l’istallazione delle centrali all’assenso delle Regioni interessate: è già qualcosa!).
Mi sembra però che eventuali schieramenti nucleare-si/nucleare-no, dovrebbero tenere conto della pericolosità – anche per noi – delle svariate centrali che abbiamo ai nostri confini. Il problema, a mio modo di vedere, andrebbe affrontato in forma più “globale”, nel senso che l’intera umanità dovrebbe chiedersi “dove vogliamo andare”; mi spiego meglio: se è vero, come è vero, che per lo sviluppo della nostra civiltà così come è attualmente impostata, l’energia è un elemento essenziale, credo che – fatto salvo il comparto delle energie alternative (assolutamente non sufficiente) – sia il petrolio/gas che il carbone abbiano una vita limitata (50 anni il primo, 100 il secondo), per cui il nucleare diventa “indispensabile”. Ma sia chiaro: indispensabile a questo modello paranoico dello sviluppo, un modello che pretende uno sviluppo continuo e costante del prodotto dei singoli Stati, pena il declassamento e la conseguente crisi.
Se invece si imparasse “tutti” a ragionare in modo diverso e ad “accontentarci” di meno cose da possedere (la più parte superflue) forse si potrebbe affrontare lo sviluppo con una diversa impostazione; si diceva che solo una guerra o comunque un grosso evento traumatico può indurre la gente a mutare abitudini: ebbene, questo potrebbe essere il caso che c’induce a riflettere sul futuro che vogliamo per i nostri figli e nipoti.
martedì, marzo 15, 2011
POSSIAMO CONSOLARCI?
Due tra le Nazioni meglio attrezzate sotto il profilo organizzativo; due tra i Paesi che molte volte hanno stigmatizzato le nostre inefficienze e la nostra burocrazia; insomma, due tra i meglio organizzati Governi e soprattutto, con una opinione pubblica che sta dietro a quello che la dirigenza statale mette in piedi.
Dove voglio arrivare con queste premesse? Vorrei citare un paio di casi accaduti in questi giorni, che ci fanno ridimensionare questi grandi Paesi e che ci fanno esclamare “allora capitano anche a voi”; alludo al Giappone ed alla Francia, ma sia chiaro che non dobbiamo attaccarci all’inefficienza altrui per scusare la nostra, però, una piccola soddisfazione ogni tanto è bene prendersela.
Ed ecco i due eventi che conducono anche queste grandi Nazioni tra quelle “come noi”: il primo si sta svolgendo in Giappone in queste ore e chissà quanto ancora durerà. Accanto ai danni provocati direttamente dal terremoto (pochissimi, nonostante sia stato uno dei più forti della storia della sismologia) ci sono stati anche quelli provocati dallo tsunami (molto più pesanti); ma a fianco di questi (secondi solo per le vittime che al momento non ce ne sono, ma la paura per il futuro è tanta) dobbiamo considerare il problema delle centrali nucleari che, in Giappone, raggiungono la ragguardevole cifra di 55 e delle radiazioni in caso di incidente ai reattori.
Ovviamente sono state tutte progettate e realizzate tenendo conto della forza di un eventuale sisma, ma sulla sicurezza delle centrali sembra che ci siano dei problemi: alcuni dati sulla sicurezza sembrano essere stati falsificati più volte e inoltre, alcuni allarmi sulla cattiva gestione dei controlli non sono stati presi nella dovuta considerazione; un solo esempio: ad un controllo l’azienda addetta – la Hitachi – avrebbe immesso aria in modo da bilanciare le eventuali perdite che si aspettava sarebbero state rilevate nel controllo sulla impermeabilità del supercontenitore.
Inoltre, nel reattore di Fukushima, i suggerimenti dei tecnici nucleari americani suggerirono un “esame ultrasonico” urgente ma la Direzione dello stabilimento affermò che tale intervento non era necessario.
Insomma, si può rilevare che in molti casi si è avuto quel “lassismo” che esiste da noi e che “gli altri” ci rimproverano continuamente; provocherà dei guai seri (morti e altro)? Speriamo di no, ma in caso contrario le polemiche monterebbero ancora di più: proprio come avviene da noi.
La seconda vicenda che ci porta alla pari degli altri, si è svolta in Francia e tocca il comparto della Giustizia: da noi, anche senza le pendenze di Berlusconi, siamo un po’ tutti concordi che le azioni della giustizia sono troppo lunghe e che in questo lasso di tempo, il malcapitato che cade in questo gorgo, ne esce con le ossa rotte, specie quando poi, alla fine, risulta innocente.
Ebbene, nella vicina Francia, dai cugini francesi che non perdono occasione per guardarci dall’alto in basso, è capitato un caso giudiziario che è durato la bellezza di 63 (sessantatre) anni: alcuni minatori, licenziati dalla loro azienda nel 1948, impugnarono il licenziamento e chiesero il reintegro nel loro posto di lavoro; dopo, soltanto, 63 anni la Corte d’Appello di Versailles ha dato ragione ai minatori fissando, in mancanza della possibilità dei reintegro, un risarcimento di 30/mila euro per ciascun soggetto ancora in vita o per gli eredi. Che ne dite, ce ne hanno messo di tempo prima di “decidere” i signori giudici!! E ricordiamo che una giustizia così in ritardo è come una “giustizia negata”: specie per quelli (la maggioranza) che nel frattempo sono morti.
Dove voglio arrivare con queste premesse? Vorrei citare un paio di casi accaduti in questi giorni, che ci fanno ridimensionare questi grandi Paesi e che ci fanno esclamare “allora capitano anche a voi”; alludo al Giappone ed alla Francia, ma sia chiaro che non dobbiamo attaccarci all’inefficienza altrui per scusare la nostra, però, una piccola soddisfazione ogni tanto è bene prendersela.
Ed ecco i due eventi che conducono anche queste grandi Nazioni tra quelle “come noi”: il primo si sta svolgendo in Giappone in queste ore e chissà quanto ancora durerà. Accanto ai danni provocati direttamente dal terremoto (pochissimi, nonostante sia stato uno dei più forti della storia della sismologia) ci sono stati anche quelli provocati dallo tsunami (molto più pesanti); ma a fianco di questi (secondi solo per le vittime che al momento non ce ne sono, ma la paura per il futuro è tanta) dobbiamo considerare il problema delle centrali nucleari che, in Giappone, raggiungono la ragguardevole cifra di 55 e delle radiazioni in caso di incidente ai reattori.
Ovviamente sono state tutte progettate e realizzate tenendo conto della forza di un eventuale sisma, ma sulla sicurezza delle centrali sembra che ci siano dei problemi: alcuni dati sulla sicurezza sembrano essere stati falsificati più volte e inoltre, alcuni allarmi sulla cattiva gestione dei controlli non sono stati presi nella dovuta considerazione; un solo esempio: ad un controllo l’azienda addetta – la Hitachi – avrebbe immesso aria in modo da bilanciare le eventuali perdite che si aspettava sarebbero state rilevate nel controllo sulla impermeabilità del supercontenitore.
Inoltre, nel reattore di Fukushima, i suggerimenti dei tecnici nucleari americani suggerirono un “esame ultrasonico” urgente ma la Direzione dello stabilimento affermò che tale intervento non era necessario.
Insomma, si può rilevare che in molti casi si è avuto quel “lassismo” che esiste da noi e che “gli altri” ci rimproverano continuamente; provocherà dei guai seri (morti e altro)? Speriamo di no, ma in caso contrario le polemiche monterebbero ancora di più: proprio come avviene da noi.
La seconda vicenda che ci porta alla pari degli altri, si è svolta in Francia e tocca il comparto della Giustizia: da noi, anche senza le pendenze di Berlusconi, siamo un po’ tutti concordi che le azioni della giustizia sono troppo lunghe e che in questo lasso di tempo, il malcapitato che cade in questo gorgo, ne esce con le ossa rotte, specie quando poi, alla fine, risulta innocente.
Ebbene, nella vicina Francia, dai cugini francesi che non perdono occasione per guardarci dall’alto in basso, è capitato un caso giudiziario che è durato la bellezza di 63 (sessantatre) anni: alcuni minatori, licenziati dalla loro azienda nel 1948, impugnarono il licenziamento e chiesero il reintegro nel loro posto di lavoro; dopo, soltanto, 63 anni la Corte d’Appello di Versailles ha dato ragione ai minatori fissando, in mancanza della possibilità dei reintegro, un risarcimento di 30/mila euro per ciascun soggetto ancora in vita o per gli eredi. Che ne dite, ce ne hanno messo di tempo prima di “decidere” i signori giudici!! E ricordiamo che una giustizia così in ritardo è come una “giustizia negata”: specie per quelli (la maggioranza) che nel frattempo sono morti.
domenica, marzo 13, 2011
COSA HO FATTO IN SICILIA
Faccio subito seguito al mio post di ieri con cui salutavo gli amici lettori e mi addentro in quello che mi ha tenuto lontano da casa e dal mio blog (fuori sede non scrivo, anche se potrei!); nella scuola dove ormai da sette anni mi chiamano a parlare di cinema, la direzione didattica aveva pensato di presentare una serie di film “in onore della commemorazione del centocinquantesimo dell’unità d’Italia”.
Non ho discusso sulla decisione anche se mi sono permesso di richiamare il concetto che ogni film è opera di comunicazione e che è nient’altro che l’idea dell’autore circa un determinato evento; pertanto, nessuna “verità” storica, ma solo il modo con cui alcuni registi hanno interpretato dei fatti storici.
Mi sono però sentito in dovere di dare alcune mie nozioni circa l’unità d’Italia: la prima è che il Parlamento che decretò l’inizio del Regno d’Italia era formato da deputati che rappresentavano una minima parte degli italiani; pensate che sui 20/milioni circa di abitanti, solo 400/mila avevano diritto al voto (nessuna donna e gli uomini solo per censo); di questi solo 200/mila votarono per eleggere i deputati, quindi possiamo dire che il Regno d’Italia è nato per determinazione dell’1% dei suoi abitanti. Chiaro??
Ho poi aggiunto che il primo Re d’Italia, non si è neppure sognato di cambiare il proprio nome ed è rimasto Vittorio Emanuele II, come si chiamava al tempo in cui era re di Sardegna; questo per dire che lui – e tanti altri – ha inteso l’unità d’Italia come una sorta di incorporazione dei vari staterelli nel regno di Sardegna che comprendeva anche il Piemonte; inoltre, nel 1861, data in cui è nato il Regno d’Italia, mancava il Veneto ed il Lazio, con Roma, oltre ad alcune città del Sud come Gaeta e Messina.
C’è poi da dire due parole sul controverso Inno di Mameli: forse non tutti sanno che questo inno vide la luce solo nel 1946 quando De Gasperi si ricordò di lui e lo fece usare per l’Esercito; prima di allora, l’inno d’Italia fu solo la “Marcia Reale”, la quale venne dismessa e sostituita con l’inno di Mameli anche nel breve periodo della Repubblica di Salò, per mostrare il distacco dal precedente regime.
I film utilizzati per illustrare il periodo (1861 fino ad oggi) sono stati 6 ed hanno mostrato come alcuni registi nostrali hanno presentato la costruzione dello Stato, cioè di un ordinamento giuridico politico che esercita il potere sovrano su un determinato territorio e sui soggetti ad esso appartenenti, ma quanto è stato ancora più difficile costruire una Nazione, cioè un complesso di persone che, avendo in comune alcune caratteristiche, quali la storia, il territorio, la cultura, l’etnia e la politica, si identifica in una comune identità a cui essi sentono di appartenere, legati come sono, da un sentimento di solidarietà; insomma, come disse Massimo D’Azeglio “abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”.
Con i ragazzi, ad ogni film ho ragionato sui problemi che anche adesso sussistono alla costruzione dell’Italia e ne è venuta fuori una discussione molto interessante.
Gli autori che sono sfilati davanti ai ragazzi con i loro film, da Faenza a Visconti, da Monicelli a Germi e Rossellini, sono risultati sicuramente “diversi” da quelli a cui sono abituati dall’odierna cinematografia, ma anche dalla tipologia delle trasmissioni televisive; c’è voluto del bello e del buono per far loro capire che era come avere davanti “I promessi Sposi”, romanzo certamente “diverso” da quelli di Federico Moccia.
Ce l’ho fatta anche questa volta, ma non è stato facile; certo che la distanza tra noi “adulti” (peggio ancora se anziani) ed i giovani d’oggi, si va dilatando a vista d’occhio, creando un solco che solo la cultura e la comprensione reciproca può colmare.
Non ho discusso sulla decisione anche se mi sono permesso di richiamare il concetto che ogni film è opera di comunicazione e che è nient’altro che l’idea dell’autore circa un determinato evento; pertanto, nessuna “verità” storica, ma solo il modo con cui alcuni registi hanno interpretato dei fatti storici.
Mi sono però sentito in dovere di dare alcune mie nozioni circa l’unità d’Italia: la prima è che il Parlamento che decretò l’inizio del Regno d’Italia era formato da deputati che rappresentavano una minima parte degli italiani; pensate che sui 20/milioni circa di abitanti, solo 400/mila avevano diritto al voto (nessuna donna e gli uomini solo per censo); di questi solo 200/mila votarono per eleggere i deputati, quindi possiamo dire che il Regno d’Italia è nato per determinazione dell’1% dei suoi abitanti. Chiaro??
Ho poi aggiunto che il primo Re d’Italia, non si è neppure sognato di cambiare il proprio nome ed è rimasto Vittorio Emanuele II, come si chiamava al tempo in cui era re di Sardegna; questo per dire che lui – e tanti altri – ha inteso l’unità d’Italia come una sorta di incorporazione dei vari staterelli nel regno di Sardegna che comprendeva anche il Piemonte; inoltre, nel 1861, data in cui è nato il Regno d’Italia, mancava il Veneto ed il Lazio, con Roma, oltre ad alcune città del Sud come Gaeta e Messina.
C’è poi da dire due parole sul controverso Inno di Mameli: forse non tutti sanno che questo inno vide la luce solo nel 1946 quando De Gasperi si ricordò di lui e lo fece usare per l’Esercito; prima di allora, l’inno d’Italia fu solo la “Marcia Reale”, la quale venne dismessa e sostituita con l’inno di Mameli anche nel breve periodo della Repubblica di Salò, per mostrare il distacco dal precedente regime.
I film utilizzati per illustrare il periodo (1861 fino ad oggi) sono stati 6 ed hanno mostrato come alcuni registi nostrali hanno presentato la costruzione dello Stato, cioè di un ordinamento giuridico politico che esercita il potere sovrano su un determinato territorio e sui soggetti ad esso appartenenti, ma quanto è stato ancora più difficile costruire una Nazione, cioè un complesso di persone che, avendo in comune alcune caratteristiche, quali la storia, il territorio, la cultura, l’etnia e la politica, si identifica in una comune identità a cui essi sentono di appartenere, legati come sono, da un sentimento di solidarietà; insomma, come disse Massimo D’Azeglio “abbiamo fatto l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”.
Con i ragazzi, ad ogni film ho ragionato sui problemi che anche adesso sussistono alla costruzione dell’Italia e ne è venuta fuori una discussione molto interessante.
Gli autori che sono sfilati davanti ai ragazzi con i loro film, da Faenza a Visconti, da Monicelli a Germi e Rossellini, sono risultati sicuramente “diversi” da quelli a cui sono abituati dall’odierna cinematografia, ma anche dalla tipologia delle trasmissioni televisive; c’è voluto del bello e del buono per far loro capire che era come avere davanti “I promessi Sposi”, romanzo certamente “diverso” da quelli di Federico Moccia.
Ce l’ho fatta anche questa volta, ma non è stato facile; certo che la distanza tra noi “adulti” (peggio ancora se anziani) ed i giovani d’oggi, si va dilatando a vista d’occhio, creando un solco che solo la cultura e la comprensione reciproca può colmare.