venerdì, aprile 12, 2013
ANCORA DUE PAROLE SULLA "STRAGE DI STATO"
Torniamo con alcuni commenti – miei e di
altri – sulla tragedia avvenuta nelle Marche, dove si sono suicidate tre
persone (marito, moglie e fratello della donna) a causa della miseria in cui
erano caduti per colpa della “crisi”.
Alcune amiche, durante il funerale, hanno
affermato con rabbia, rivolte all’amica deceduta: ti vergognavi di essere
caduta in povertà, ma non dovevi essere tu a vergognarti”; a chi alludono le
amiche? Forse allo Stato o a qualche apparato di questo? In particolare, mi
riferisco al maggiore ente locale – la Regione – che per bocca del proprio Governatore –
ha detto: “il senso di impotenza è enorme; la nostra comunità ha valori forti,
ma non è bastato”. Non so a voi, ma queste dichiarazioni mi lasciano un senso
di vuoto, come se questi signori – con il culo al caldo – parlano tanto per
dire qualcosa, ma sono comunque sicuri che il problema piano piano si sgonfierà
e tutto tornerà come prima; e, purtroppo, non hanno torto!!
Lo Stato era rappresentato ai massimi
livelli, dal numero tre in ordine di importanza tra le cariche dello Stato,
cioè la Presidente
della Camera Boldrini; la frase che ha detto – o, forse le è sfuggita
involontariamente – è di quelle che fanno venire l’orticaria: “”ho imparato in
questi giorni la sofferenza del mio Paese; non immaginavo di trovare un ‘Italia
così povera; servono cose essenziali”.
Brevissimo commento: ma dove ha vissuto la
signora Boldrini fino ad ora? Non dico nelle riunioni dei vertici dello Stato, ma
almeno nelle discussioni con gli amici o nelle frasi che si sentono nei locali
pubblici, non aveva avuto sentore che eravamo veramente alla canna del gas? O
forse, quando parlavano di queste cose lei era intenta a leggere un bel libro
oppure parlava con un amico di altre cose, altrettanto importanti, ma meno
oppressivi.
Ed infatti, non è che questa ennesima
tragedia, forse la più tremenda, abbia scosso più di tanto i politici impegnati
a fare un governo che cerchi di raddrizzare la situazione economica; continua
lo stucchevole andazzo dei veti incrociati (io con te non mi ci metto, anche se
non possiamo fare diversamente) il tutto perché la politica – quella squallida,
quella che cerca solo l’interesse personale – continua a giocare in attesa che
qualcuno di loro si stanchi e ammorbidisca le pretese; e se altri soffrono le
pene dell’inferno, oppure arrivano a togliersi la vita per non poter far fronte
ai propri impegni, chi se ne frega; tanto quanti saranno in questa condizione?
Ve lo dico io quanti sono: l’ISTAT ha comunicato ufficialmente che nel 2012 si
sono avuti 1.000.000 di licenziamenti e quindi non mi sembra difficile trarre
le conclusioni e “vedere” la tragicità della situazione.
Ma se torniamo al post di ieri l’altro,
troviamo una conferma di quanto affermato, con questa dichiarazione: “si
vergognavano di chiedere aiuto, come se il fatto di non avere soldi
significasse essere persone indegne”; questo è quanto è nato dalla nostra stupida società dei consumi che lega i soldi
al senso etico delle persona.
E allora torniamo all’omicidio di Stato, così
come è stato definito questo ennesimo fattaccio; credo che tra le altre cose, si alluda anche
al fatto che l’organizzazione della cosa pubblica è bravissima a trovare il
modo di controllare i cosiddetti “ricchi” (vedi l’ultima trovata con la
computerizzazione dei conti correnti) e non si capisce perché una analoga
competenza non venga impiegata anche per i “poveri” e quindi non si abbia
bisogno che loro “chiedano”, ma dovrebbe essere lo Stato che si muove e
interviene in quelle situazioni di necessità; sbaglio??!!
mercoledì, aprile 10, 2013
MORTE TRE PERSONE: DI CHI LA COLPA?
La zona dove è avvenuto il fattaccio non è
neppure tra quelle “sottosviluppate”, in quanto siamo a Civitanova Marche, zona
conosciuta oltre che per il mare, anche per le tante industrie – quasi tutte medio/piccole
– che producono scarpe.
Ecco il fattaccio: personaggi, il marito, 63
anni, proveniente da una fabbrica di scarpe e da qualche tempo esodato e quindi
senza un briciolo di introito; la moglie, 68 anni, riceveva la pensione
“minima” (500 euro); i due sono scesi in cantina ed hanno legato ad un tubo che
corre lungo il soffitto, due cappi per impiccati, quindi ci hanno infilato il
capo dentro e si sono gettati: risultato morti entrambi.
Ma nella vicenda c’è anche un terzo
personaggio, il fratello di lei, che appena ha appreso del duplice suicidio, è
corso verso porto e si è gettato nel mare in burrasca; varie persone hanno
assistito alla scena, cosicché molte corde sono state gettate in mare per
cercare di salvare l’uomo, ma è sembrato che lui le rifiutasse; comunque sia,
alla fine è stato raccolto quando ancora respirava, ma è morto quasi subito,
non prima però di pronunciare la parola “grazie”.
I due coniugi hanno lasciato un biglietto
infilato sotto il tergicristallo della vecchia Panda, chiedendo perdono e
indicando dove si trovavano i corpi.
Per commentare questa tragica vicenda, prendo
in prestito i commenti dei vicini di casa che piangevano disperati: “sono stati
umiliati dalla crisi; non avevano neppure i soldi per l’affitto”; “hanno
preferito scomparire” si vergognavano della loro condizione”; “erano stati
indirizzati ai Servizi Sociali ma non ci sono andati perché si vergognavano a
chiedere aiuto”
Non sono pareri di “saggi” ma semplicemente pensieri
e ricordi di gente della strada che li conosceva e che conosceva anche la loro
situazione; e sulla base di questo mi è venuto in mente un argomento che ho già
trattato su questo blog ma che vorrei riprendere, sia pure brevemente: quello
dei “poveri vergognosi”.
A metà del 1400, Cosimo dei Medici, per scopi
puramente politici, aumenta vertiginosamente le tasse e si venne così a creare
la categoria di cui sopra, i quali sono vergognosi non perché sono
vergognosamente poveri, ma perché si vergognano di esserlo, di essere caduti in
miseria , ma dato che conservavano ancora la loro dignità, non riuscivano a
stendere la mano in segno di questua.
Venne incontro a questi “vergognosi” un
piccolo fraticello, Frate Antonino, poi divenuto Santo, il quale provvedeva a
ricercare queste situazione di bisogno e, con i denari che riusciva a
raggranellare nelle sue questue tra i ricchi, faceva il possibile per risolvere
la maggior parte delle situazioni.
Questa Congregazione c’è ancora a Firenze e
si comporta esattamente come allora: ai lati della porta d’ingresso della Cappella,
ci sono due feritoie: in una ci vanno le “suppliche” (rigorosamente anonime) e
nell’altra “le offerte”; spetta poi ai buono0mini fare le scelte e le cernite
per risolvere il maggior numero di casi
possibili.ù
Perché ho fatto questo riferimento? Perché ai
giorni nostri, con tutti i computer che abbiamo, con tutte le “reti” in cui
cascano i nomi di quasi tutti, non riusciamo ancora a mettere in piedi un
sistema che faccia emergere queste disgraziate situazioni e ci dobbiamo
contentare di leggere sulla stampa i tragici epiloghi oppure di rimettersi ai
nostri “buonuomini” (sono ancora arzilli) i quali fanno affidamento soltanto
sul cuore degli anonimi benefattori. E intanto la gente continua a morire con
le strutture pubbliche che si rimpallano il problema, senza risolvere un bel
niente.
lunedì, aprile 08, 2013
CELLULARE, CHE PASSIONE!!
La grande invenzione di Martin Cooper compie
40 anni: mi riferisco al “cellulare” e, ad onor del vero ed a sentire le
confidenze dei suoi amici, il geniale Martin non pensava certo di far compiere
un così grande passo avanti all’umanità, da sconvolgerle la vita!
Il telefono, per la verità, esisteva già fin
dai tempi della querelle tra Meucci e Bell, ma Cooper – capo ricercatore alla
Motorola – inventò un accessorio diventato in breve indispensabile: il telefono
cellulare, un aggeggio, cioè che si poteva portare dietro e usare in qualunque
posto (o quasi).
Il primo apparecchio uscito dalla fabbrica si
chiamava DynaTac, pesava un chilo e mezzo e garantiva un’autonomia di trenta
minuti, dopo essere stato attaccato alla presa per la ricarica per dieci ore.
Il prototipo Motorola costava 4/mila dollari
e per coloro che se lo potevano permettere, veniva considerato un’inezia se
comparato al costo di ogni singolo minuto di conversazione; comunque, il
cellulare rimase “un sogno” per moltissima gente.
Passeranno ben 10 anni perché il prototipo
venga sostituito dal suo successore, il DynaTac 8000X,; dopo 6 anni nacque il
MicroTac, il primo “flip phone” che, dopo quattro anni venne sostituito dal
Simon Personal Comunicator, il primo con i requisiti di uno smarthphone; in
Italia la prima azienda che si occupò di questo prodotto fu la Olivetti che realizzò un
cellulare chiamato dai clienti “spaccatasche” perché era ingombrante e di
notevole peso e per questi motivi, ovunque cercassi di infilarlo, riusciva a
creare danni al tuo vestito.
Il primo problema che creò il nuovo aggeggio,
fu quello della privacy e della reperibilità, in quanto ogni possessore di
cellulare era (ed è; smettiamo di usare
il passato) alla mercè di qualsiasi scocciatore che sia in possesso del
numero di riferimento; ma lo slogan che venne usato in quei tempi era: “sei in
contatto con il Mondo e il Mondo è in contatto con te””; quasi tutti ci
cascarono e non compresero il sottostante legame che veniva a crearsi tra il
chiamante e il chiamato.
Ricordo che negli anni di inizio secolo –
2000 o giù di lì – quando avere il Blackberry era un simbolo di emancipazione
sociale, una volta mi ritrovai in treno, in uno scompartimento in cui c’ero
solo io e un signore che salì sul treno dopo di me e appena preso possesso del
posto, tirò fuori di tasca 3(tre!!) cellulari e li mise ostentatamente vicino a
se. Il tempo passava e il trillo non veniva, i cellulari non davano segni di
vita; il signore che voleva “ostentare”, controllò invano varie volte le
apparecchiature per vedere se erano accese e dovette arrendersi al fatto che
“non lo cercava nessuno” e questo lo turbò fortemente; se avessi saputo il suo
numero, lo avrei chiamato, tanto per sollevargli lo spirito.
Adesso, fateci caso: specialmente i giovani,
salgono su un mezzo pubblico e la prima cosa che fanno è quello di controllare
il cellulare: lo aprono, guardano se ci sono chiamate e, in caso contrario, si
mettono a fare messaggi in modo incessante.
E lo fanno in maniera splendida, a giudicare dalla parte di un anziano come me
che ci riesce solo stando a sedere: stanno in piedi con una mano si reggono
alla struttura del bus e con l’altra tengono il cellulare e contemporaneamente scrivono il
messaggio.
C’è poi il rapporto che, attraverso il
cellulare, s’instaura tra figli e genitori: i ragazzi, ai quali è stato
comprato “doverosamente” un bellissimo cellulare, vengono contattati dai
genitori che chiedono le cose più banali al solo scopo di conoscere – se i
figli glielo dicono – “dove sono in quel momento”; illusii!!