sabato, dicembre 12, 2009
LA PRIMA DELLA SCALA
Come molti appassionati avranno visto, “la Scala” di Milano ha festeggiato il Sant’Ambrogio con una splendida “Carmen”, diretta dal grande Daniel Baremboin.
Fuori dal Teatro e prima che avesse inizio l’opera, si è avuta una contestazione di vario genere, comunque niente a che vedere con quella del 1968, pilotata dal celebre Mario Capanna e che dette luogo a forti scontri con la Polizia.
Adesso i motivi del contendere sono un più precisi di quelli del ’68 e cioè, si manifesta per difendere il posto di lavoro, anche se ci sarebbe da distinguere tra gli operai che rischiano “effettivamente” il lavoro (e molti lo hanno già perso) e i musicisti e i dipendenti degli Enti Lirici che rischiano ben poco, forse qualche rappresentazione in meno, ma niente sul piano personale all’interno della struttura artistica.
Eppure, questo “mischiare” insieme le due problematiche (operai e dipendenti degli Enti Lirici) ha prodotto addirittura una situazione che a me è apparsa “comica” - ma potrei sbagliare – in cui si vedono gli spettatori in abito da sera che, prima dell’inizio dell’Opera, fanno un minuto di silenzio per “il lavoro”: ma che cosa hanno voluto dire? Forse una partecipazione emozionale di questi signori che del lavoro conoscono solo il modo di sfruttarlo? Forse una partecipazione all’insegna “lo fanno tutti e allora starò in silenzio anch’io per il canonico minuto”? Non l’ho capita bene e quindi mi astengo dal giudizio, ma vedrete che in ogni modo non sarebbe lusinghiero.
Torniamo all’esterno e vediamo come stanno le cose: per quanto riguarda i problemi degli Enti Lirici, è chiaro che questi esistono e sono anche di un certo spessore, visti i costi sempre più elevati dei “carrozzoni” dei vari Teatri e delle 14 Fondazioni, tenendo conto che almeno il 70% dei questi costi è assorbito dal personale e dagli artisti.
E mi sembra sbagliato continuare a chiedere soldi allo Stato, anche perché – contrariamente a quanto viene detto dai sindacati degli artisti – la Finanziaria del 2010, che ha tagliato in molti comparti, è in controtendenza per il settore della cultura, i cui contributi sono addirittura aumentati: 465 milioni di euro contro i 447,8 del 2009.
Certo che, se gli atteggiamenti dei responsabili di questi Enti non mutano indirizzo e non si toglie i paletti alla riforma degli incentivi, basata su interventi fiscali e creditizi e non più su contributi “a pioggia”, riforma di cui i “carrozzoni” non vogliono neppure sentire parlare, la situazione economica non migliorerà, anche perché questi incentivi non basteranno mai a categorie di operatori culturali che si sono mostrate sempre più rapaci e inefficienti. Da notare che il finanziamento degli spettacoli è quasi esclusivamente pubblico, perché le Fondazioni – all’uopo create – non riescono ad attrarre i soldi del privato e vanno avanti soltanto per auto-referenzialità.
Ed i vari contestatori del sistema, non si sono mai impegnati a redigere proposte concrete mirate a ridurre i costi delle realizzazioni, a promuovere l’accesso a nuove fasce di spettatori (penso ai giovani ed agli anziani) ed infine a rendere più produttivi almeno i grandi teatri italiani, quelli che staccano migliaia di biglietti, ma che ciò nonostante sono sempre in profondo rosso.
Ho conoscenza diretta di alcuni grossi contribuenti del Teatro Lirico della mia città che si sono rifiutati di confermare il proprio “obolo”, motivando la cosa con la mancanza di trasparenza nei conti del Teatro; hanno anche aggiunto che – qualora venissero mostrati i conti e fosse chiaramente visibile una “buona amministrazione del pubblico denaro” – sarebbero pronti a rivedere la decisione; a ieri sera ancora nessuno li ha chiamati per mostrare le carte. Che vorrà dire??
Fuori dal Teatro e prima che avesse inizio l’opera, si è avuta una contestazione di vario genere, comunque niente a che vedere con quella del 1968, pilotata dal celebre Mario Capanna e che dette luogo a forti scontri con la Polizia.
Adesso i motivi del contendere sono un più precisi di quelli del ’68 e cioè, si manifesta per difendere il posto di lavoro, anche se ci sarebbe da distinguere tra gli operai che rischiano “effettivamente” il lavoro (e molti lo hanno già perso) e i musicisti e i dipendenti degli Enti Lirici che rischiano ben poco, forse qualche rappresentazione in meno, ma niente sul piano personale all’interno della struttura artistica.
Eppure, questo “mischiare” insieme le due problematiche (operai e dipendenti degli Enti Lirici) ha prodotto addirittura una situazione che a me è apparsa “comica” - ma potrei sbagliare – in cui si vedono gli spettatori in abito da sera che, prima dell’inizio dell’Opera, fanno un minuto di silenzio per “il lavoro”: ma che cosa hanno voluto dire? Forse una partecipazione emozionale di questi signori che del lavoro conoscono solo il modo di sfruttarlo? Forse una partecipazione all’insegna “lo fanno tutti e allora starò in silenzio anch’io per il canonico minuto”? Non l’ho capita bene e quindi mi astengo dal giudizio, ma vedrete che in ogni modo non sarebbe lusinghiero.
Torniamo all’esterno e vediamo come stanno le cose: per quanto riguarda i problemi degli Enti Lirici, è chiaro che questi esistono e sono anche di un certo spessore, visti i costi sempre più elevati dei “carrozzoni” dei vari Teatri e delle 14 Fondazioni, tenendo conto che almeno il 70% dei questi costi è assorbito dal personale e dagli artisti.
E mi sembra sbagliato continuare a chiedere soldi allo Stato, anche perché – contrariamente a quanto viene detto dai sindacati degli artisti – la Finanziaria del 2010, che ha tagliato in molti comparti, è in controtendenza per il settore della cultura, i cui contributi sono addirittura aumentati: 465 milioni di euro contro i 447,8 del 2009.
Certo che, se gli atteggiamenti dei responsabili di questi Enti non mutano indirizzo e non si toglie i paletti alla riforma degli incentivi, basata su interventi fiscali e creditizi e non più su contributi “a pioggia”, riforma di cui i “carrozzoni” non vogliono neppure sentire parlare, la situazione economica non migliorerà, anche perché questi incentivi non basteranno mai a categorie di operatori culturali che si sono mostrate sempre più rapaci e inefficienti. Da notare che il finanziamento degli spettacoli è quasi esclusivamente pubblico, perché le Fondazioni – all’uopo create – non riescono ad attrarre i soldi del privato e vanno avanti soltanto per auto-referenzialità.
Ed i vari contestatori del sistema, non si sono mai impegnati a redigere proposte concrete mirate a ridurre i costi delle realizzazioni, a promuovere l’accesso a nuove fasce di spettatori (penso ai giovani ed agli anziani) ed infine a rendere più produttivi almeno i grandi teatri italiani, quelli che staccano migliaia di biglietti, ma che ciò nonostante sono sempre in profondo rosso.
Ho conoscenza diretta di alcuni grossi contribuenti del Teatro Lirico della mia città che si sono rifiutati di confermare il proprio “obolo”, motivando la cosa con la mancanza di trasparenza nei conti del Teatro; hanno anche aggiunto che – qualora venissero mostrati i conti e fosse chiaramente visibile una “buona amministrazione del pubblico denaro” – sarebbero pronti a rivedere la decisione; a ieri sera ancora nessuno li ha chiamati per mostrare le carte. Che vorrà dire??
giovedì, dicembre 10, 2009
LA MORTE: LAICA O RLIGIOSA?
Nei giorni scorsi ho udito una dichiarazione del Professor Veronesi che mi ha molto interessato: l’illustre scienziato affermava che la morte viene “vissuta” (scusate l’ossimoro) molto meglio dal “non credente” che dal “credente”, cristiano o di altre religioni; questo perché il laico considera la morte come la conclusione logica del viaggio della vita e quindi se ne dà una ragione fisiologica.
Per la verità, nella storia delle religioni si apprende che la ricerca di un Dio è stata messa in essere dall’uomo per lenire la propria angoscia di morte e quindi si può ragionevolmente dedurre che la sua “invenzione” non discende dal bisogno di Dio ma dalla necessità di rimuovere la paura della morte; l’oggetto del bisogno non è Dio ma la “rimozione” della morte.
È quindi logico supporre che tutti coloro che non sono riusciti a pervenire alla conoscenza di un Dio, sono rimasti nell’angoscia del momento in cui la loro vita si chiuderà, cioè del momento della loro morte.
Ho trovato, in un libro di psicanalisi, questo curioso dialogo tra un visitatore dei cimiteri ed un prete addetto agli stessi luoghi: “Padre, Lei prega per i morti?”/ “Prego perché i morti vivano per il bisogno dei vivi; i morti sono nelle braccia del Signore, non hanno bisogno di nulla”/ “E l’inferno?”/ “Conosco quello di questa terra, le ingiustizie del mondo, un mondo che a differenza di quello dei morti non capisce la misericordia e la bontà del Padre”/ “Io ho paura della morte”/ “Anch’io, ma ho tanta speranza in chi mi ha messo in questo cimitero da vivo”.
Quindi il credente, al contrario dell’ateo,ha la speranza di andare a stare nelle braccia del Signore e lì trovare la pace eterna, che poi sarebbe nient’altro che la serenità che deriva dalla contemplazione di Dio, dei Santi e dei Martiri.
Colui invece che non crede non ha nessuna speranza e quindi la conclusione della sua vita è solamente un fatto biologicamente accettato.
Non è dato sapere se il signor Jan Jerzy Wieczorek, quarantottenne polacco, di professione “clochard”, fosse credente o meno; eppure il nostro amico ha esalato l’ultimo respiro in un modo a dir poco raccapricciante: poco dopo l’imbrunire, sdraiato su una panchina di pietra, infagottato in una mucchio di stracci, con vicino alcuni cartocci contenenti viveri ed altri oggetti, mentre tutto attorno a lui la gente sfilava per correre a fare acquisti per il prossimo Natale: siamo infatti in pieno centro storico di Firenze, letteralmente preso d’assalto da italiani e stranieri, tutti alla ricerca dell’oggetto da acquistare per i propri cari; e Jan ha scelto proprio quel posto e quell’ora per morire.
Le risultanze del medico legale sono state “decesso per cause naturali”; pensate, questa società non si è presa neppure il disturbo di spendere quei pochi euro per svolgere una autopsia che facesse conoscere le vere cause della morte del signore polacco; perché di qualcosa deve pur essere morto, qualche aggeggio del suo corpo deve avere fatto corto circuito o essere entrato in crisi, insomma uno dei tanti “particolari” che formano il nostro “interno” deve aver fatto le bizze e si deve essere bloccato, facendo così fermare anche la vita del povero Jan.
Di questa “morte” se ne è parlato solo per metterla in relazione al grande shopping natalizio, poi – ne sono certo – tutto tornerà a tacere, poiché nella nostra civiltà la morte è stata interdetta, proibita, dichiarata illegittima; in che modo? Semplice, basta non nominarla e crediamo così di averla esorcizzata; ma lei è lì e ci guarda, come fa il condor appollaiato sull’albero, in attesa del momento per intervenire; e così sarà!!
Per la verità, nella storia delle religioni si apprende che la ricerca di un Dio è stata messa in essere dall’uomo per lenire la propria angoscia di morte e quindi si può ragionevolmente dedurre che la sua “invenzione” non discende dal bisogno di Dio ma dalla necessità di rimuovere la paura della morte; l’oggetto del bisogno non è Dio ma la “rimozione” della morte.
È quindi logico supporre che tutti coloro che non sono riusciti a pervenire alla conoscenza di un Dio, sono rimasti nell’angoscia del momento in cui la loro vita si chiuderà, cioè del momento della loro morte.
Ho trovato, in un libro di psicanalisi, questo curioso dialogo tra un visitatore dei cimiteri ed un prete addetto agli stessi luoghi: “Padre, Lei prega per i morti?”/ “Prego perché i morti vivano per il bisogno dei vivi; i morti sono nelle braccia del Signore, non hanno bisogno di nulla”/ “E l’inferno?”/ “Conosco quello di questa terra, le ingiustizie del mondo, un mondo che a differenza di quello dei morti non capisce la misericordia e la bontà del Padre”/ “Io ho paura della morte”/ “Anch’io, ma ho tanta speranza in chi mi ha messo in questo cimitero da vivo”.
Quindi il credente, al contrario dell’ateo,ha la speranza di andare a stare nelle braccia del Signore e lì trovare la pace eterna, che poi sarebbe nient’altro che la serenità che deriva dalla contemplazione di Dio, dei Santi e dei Martiri.
Colui invece che non crede non ha nessuna speranza e quindi la conclusione della sua vita è solamente un fatto biologicamente accettato.
Non è dato sapere se il signor Jan Jerzy Wieczorek, quarantottenne polacco, di professione “clochard”, fosse credente o meno; eppure il nostro amico ha esalato l’ultimo respiro in un modo a dir poco raccapricciante: poco dopo l’imbrunire, sdraiato su una panchina di pietra, infagottato in una mucchio di stracci, con vicino alcuni cartocci contenenti viveri ed altri oggetti, mentre tutto attorno a lui la gente sfilava per correre a fare acquisti per il prossimo Natale: siamo infatti in pieno centro storico di Firenze, letteralmente preso d’assalto da italiani e stranieri, tutti alla ricerca dell’oggetto da acquistare per i propri cari; e Jan ha scelto proprio quel posto e quell’ora per morire.
Le risultanze del medico legale sono state “decesso per cause naturali”; pensate, questa società non si è presa neppure il disturbo di spendere quei pochi euro per svolgere una autopsia che facesse conoscere le vere cause della morte del signore polacco; perché di qualcosa deve pur essere morto, qualche aggeggio del suo corpo deve avere fatto corto circuito o essere entrato in crisi, insomma uno dei tanti “particolari” che formano il nostro “interno” deve aver fatto le bizze e si deve essere bloccato, facendo così fermare anche la vita del povero Jan.
Di questa “morte” se ne è parlato solo per metterla in relazione al grande shopping natalizio, poi – ne sono certo – tutto tornerà a tacere, poiché nella nostra civiltà la morte è stata interdetta, proibita, dichiarata illegittima; in che modo? Semplice, basta non nominarla e crediamo così di averla esorcizzata; ma lei è lì e ci guarda, come fa il condor appollaiato sull’albero, in attesa del momento per intervenire; e così sarà!!
mercoledì, dicembre 09, 2009
ZIBALDONE N.12
In questo zibaldone di fine anno mi occupo di tre eventi, modesti forse come rilevanza, ma che a me hanno interessato per più di una ragione.
Il primo si svolge a Firenze e vede due squadre di ragazzini (classe 2001) che entrano in campo per una normale partita di calcio; sugli spalti gli spettatori , pochi e composti quasi esclusivamente da genitori, è tranquilla, finché uno dei padri suggerisce al figlioletto in campo di “entrare duro sull’avversario”. Basta questo perché i gradoni dello stadio si trasformino in un campo di battaglia con i genitori delle due squadre che si menano di santa ragione. E i ragazzini/giocatori? Per un po’ continuano a giocare, poi – visto il modo di comportarsi dei genitori –rientrano “disgustati” (questo l’ho aggiunto io) negli spogliatoi, interrompendo il gioco; della serie: per questi “spettatori” non vale la pena di giocare! Bravi ragazzi; ce ne fossero tanti così!!
Il secondo ha sede ancora in Toscana, precisamente a Pistoia, dove alcuni bambini sono stati maltrattati dalla direttrice e dall’insegnante di un asilo nido; per fortuna dei giovanissimi, un genitore (di professione poliziotto) si è accorto di qualcosa di strano nel comportamento del figlio e così ha istallato delle telecamere che hanno mostrato al magistrato tutte le sevizie e i maltrattamenti di queste due “megere”: schiaffi, punizioni da lager nazista e colpi sulla testa dei bimbi erano la norma.
Ma quello che mi ha ancora di più colpito è stato un discorso fatto in TV da una madre, la quale ha affermato che dalla scuola frequentata dal figlio le hanno telefonato per avvertirla di correre subito a scuola perché il figlio si era ferito alla lingua; la donna è accorsa sconvolta ed ha trovato il bambino in un lago di sangue: l’insegnante gli aveva tagliato un pezzetto di lingua, dicendogli “così impari a chiacchierare”; arrestata e processata, la “tagliatrice di lingua” si è vista infliggere ben due mesi di reclusione, ovviamente con la condizionale; la madre, diceva che lei e l’avvocato avevano chiesto una pena severa: se questa è severità! Valla a capire la giustizia!!
Il terzo è una notizia che ci induce a vedere i programmi televisivi in modo diverso da quello attuale: la cosa più interessante, infatti, sarà contenuta nei titoli di coda; perché, mi chiederete? Ma perché il Ministro “rompiscatole” Brunetta, sta brigando per fare in modo che ogni programma messo in onda dal servizio pubblico, contenga alla fine l’importo dello stipendio che la RAI paga al relativo conduttore.
E intanto ha preteso che questi dati siano presenti sul sito internet dell’emittente; ed è così che abbiamo appreso che il più pagato è Fabio Fazio, il quale - per condurre 64 puntate del suo programma “Che tempo che fa” – percepisce un compenso annuo di due milioni di euro; la Ventura è inferiore, di poco, dato che il suo “cachet” e di un milione e ottocento mila euro, e la Carlucci, per la sola trasmissione “Ballando con le stelle” si porta a casa 1,2 milioni di euro, mentre la Dandini e Santoro prendono 710mila euro (quest’ultimo è stato reintegrato con il ruolo di Direttore; complimenti!!).
La Milena Gabbanelli, autrice di “report”, la trasmissione che ha un ruolo veramente importante e di recente ha permesso alla Polizia di rintracciare il tesoretto di Tanzi, percepisce meno della metà di quello che prendono i suoi colleghi “giornalisti”!!
Da notare che l’idea di Brunetta – per quanto demagogica – ha un suo interesse, anche se non tiene conto di un dato assai importante: gli “ascolti” ed il conseguente indotto pubblicitario, per cui il mezzo milione della Clerici per il Festival di Sanremo, se paragonato ai 600mila euro dati alla Bignardi (media ascolti 11%) per “L’era glaciale” appare come una semplice “mancia”. Chiaro il concetto??
Il primo si svolge a Firenze e vede due squadre di ragazzini (classe 2001) che entrano in campo per una normale partita di calcio; sugli spalti gli spettatori , pochi e composti quasi esclusivamente da genitori, è tranquilla, finché uno dei padri suggerisce al figlioletto in campo di “entrare duro sull’avversario”. Basta questo perché i gradoni dello stadio si trasformino in un campo di battaglia con i genitori delle due squadre che si menano di santa ragione. E i ragazzini/giocatori? Per un po’ continuano a giocare, poi – visto il modo di comportarsi dei genitori –rientrano “disgustati” (questo l’ho aggiunto io) negli spogliatoi, interrompendo il gioco; della serie: per questi “spettatori” non vale la pena di giocare! Bravi ragazzi; ce ne fossero tanti così!!
Il secondo ha sede ancora in Toscana, precisamente a Pistoia, dove alcuni bambini sono stati maltrattati dalla direttrice e dall’insegnante di un asilo nido; per fortuna dei giovanissimi, un genitore (di professione poliziotto) si è accorto di qualcosa di strano nel comportamento del figlio e così ha istallato delle telecamere che hanno mostrato al magistrato tutte le sevizie e i maltrattamenti di queste due “megere”: schiaffi, punizioni da lager nazista e colpi sulla testa dei bimbi erano la norma.
Ma quello che mi ha ancora di più colpito è stato un discorso fatto in TV da una madre, la quale ha affermato che dalla scuola frequentata dal figlio le hanno telefonato per avvertirla di correre subito a scuola perché il figlio si era ferito alla lingua; la donna è accorsa sconvolta ed ha trovato il bambino in un lago di sangue: l’insegnante gli aveva tagliato un pezzetto di lingua, dicendogli “così impari a chiacchierare”; arrestata e processata, la “tagliatrice di lingua” si è vista infliggere ben due mesi di reclusione, ovviamente con la condizionale; la madre, diceva che lei e l’avvocato avevano chiesto una pena severa: se questa è severità! Valla a capire la giustizia!!
Il terzo è una notizia che ci induce a vedere i programmi televisivi in modo diverso da quello attuale: la cosa più interessante, infatti, sarà contenuta nei titoli di coda; perché, mi chiederete? Ma perché il Ministro “rompiscatole” Brunetta, sta brigando per fare in modo che ogni programma messo in onda dal servizio pubblico, contenga alla fine l’importo dello stipendio che la RAI paga al relativo conduttore.
E intanto ha preteso che questi dati siano presenti sul sito internet dell’emittente; ed è così che abbiamo appreso che il più pagato è Fabio Fazio, il quale - per condurre 64 puntate del suo programma “Che tempo che fa” – percepisce un compenso annuo di due milioni di euro; la Ventura è inferiore, di poco, dato che il suo “cachet” e di un milione e ottocento mila euro, e la Carlucci, per la sola trasmissione “Ballando con le stelle” si porta a casa 1,2 milioni di euro, mentre la Dandini e Santoro prendono 710mila euro (quest’ultimo è stato reintegrato con il ruolo di Direttore; complimenti!!).
La Milena Gabbanelli, autrice di “report”, la trasmissione che ha un ruolo veramente importante e di recente ha permesso alla Polizia di rintracciare il tesoretto di Tanzi, percepisce meno della metà di quello che prendono i suoi colleghi “giornalisti”!!
Da notare che l’idea di Brunetta – per quanto demagogica – ha un suo interesse, anche se non tiene conto di un dato assai importante: gli “ascolti” ed il conseguente indotto pubblicitario, per cui il mezzo milione della Clerici per il Festival di Sanremo, se paragonato ai 600mila euro dati alla Bignardi (media ascolti 11%) per “L’era glaciale” appare come una semplice “mancia”. Chiaro il concetto??
lunedì, dicembre 07, 2009
SALVARE LA TERRA
Il titolo mi sembra assai catastrofico e supponente, ma è quello che la maggior parte dei quotidiani riporta nell’edizione odierna, in sede di presentazione della Conferenza sul clima che si tiene a Copenaghen e che vedrà schierate – le une contro le altre – ben 192 Nazioni di tutto il pianeta: è ormai chiaro che per “crescere” è indispensabile usare più energia e, così facendo, si producono più sostanze inquinanti.
Perché dico che i vari Paesi sono schierati su fronti diversi? Beh, anzitutto c’è il dualismo Cina-USA, con i primi che non accettano i termini di riduzione imposti dal recente accordo e incolpano gli Stati Uniti di produrre molto più CO2 di quello che fa la Cina senza per questo “pagare dazio”. Ma vediamole queste emissioni: gli USA sono ovviamente in testa a questa classifica con 25 tonnellate di CO2 per ciascun abitante emesse in un anno, seguiti dal Canada con 24, dalla Russia con 16 e da Giappone e Germania con 12, mentre Inghilterra e Francia ne producono 11 e l’Italia 9.
È chiaro che continuando di questo passo è facile prevedere che la Terra prima o poi s’incazzerà e ci ripagherà con gli interessi; ma quali contromosse sono state proposte finora? Dico subito che siamo sul deludente spinto: gli U.S.A. propongono una riduzione del 17% da realizzare entro il 2020, ma prendendo per base i dati del 2005 e quindi si ha un modesto -4% rispetto al 1990: molto meno di quanto si erano impegnati a fare nel 1997; la Cina invece propone un taglio all’intensità energetica del 40/45% e l’India del 20/25%; su questa strada sembra che nessuno li segua e quindi i due paesi/continenti potranno dire di averlo proposto ma che nessuno ha accettato e quindi continuare con l’inquinamento attuale.
Prima dell’inizio dei lavori e quindi delle proposte ufficiali, ci sono state alcune dichiarazioni che meritano di essere riportate; la prima è del capo della delegazione dell’Arabia Saudita – com’è noto maggiore produttore di petrolio – che propone una singolare equazione: “se per combattere il cambiamento climatico le nazioni ridurranno il consumo di combustibili fossili (petrolio) allora dovranno pagare una compensazione ai paesi produttori”; come dargli torto: dopo avere inquinato per fare arricchire tutti i vari sceicchi del Golfo Persico, non è proprio il caso di smettere: ormai sono abituati a questi ritmi e non possono certo ridurre le spese (mogli, cavalli da corsa, palazzi sontuosi, auto di lusso, ecc.).
Curiosa anche la proposta di Paul McCartney indirizzata all’abolizione della carne nel menu delle nostre tavole: “una bistecca inquina più di un’auto”; per la verità non spiega quale sia il processo da cui deriva quanto sopra, ma forse pensa che noi si capisca lo stesso: io non l’ho capito, e voi?
E per concludere, molto spiritoso il cartellone fatto affiggere da Greenpeace nelle strade di Copenaghen in cui si vede un Obama incanutito, ripreso tra venti anni, mentre dice: “mi dispiace per quanto non è stato fatto per salvare il Mondo”. Potremmo rispondergli che non si accettano scusanti. Ma mi sembra inutile, pensando che pochi tra noi ci saranno tra venti anni per vedere cosa è successo!
Il problema è racchiuso molto bene nelle parole usate dal Capo Delegazione dei Paesi in via di sviluppo: “i Paesi ricchi hanno creato il problema e non hanno mantenuto – Europa esclusa – gli impegni di Kyoto; non possono coinvolgere i Paesi in via di sviluppo in accordi vincolanti e – per loro – penalizzanti”; insomma si ritorna a quanto già detto: senza energia non si progredisce e i Paesi in via di sviluppo questo slogan lo conoscono fin troppo bene.
Perché dico che i vari Paesi sono schierati su fronti diversi? Beh, anzitutto c’è il dualismo Cina-USA, con i primi che non accettano i termini di riduzione imposti dal recente accordo e incolpano gli Stati Uniti di produrre molto più CO2 di quello che fa la Cina senza per questo “pagare dazio”. Ma vediamole queste emissioni: gli USA sono ovviamente in testa a questa classifica con 25 tonnellate di CO2 per ciascun abitante emesse in un anno, seguiti dal Canada con 24, dalla Russia con 16 e da Giappone e Germania con 12, mentre Inghilterra e Francia ne producono 11 e l’Italia 9.
È chiaro che continuando di questo passo è facile prevedere che la Terra prima o poi s’incazzerà e ci ripagherà con gli interessi; ma quali contromosse sono state proposte finora? Dico subito che siamo sul deludente spinto: gli U.S.A. propongono una riduzione del 17% da realizzare entro il 2020, ma prendendo per base i dati del 2005 e quindi si ha un modesto -4% rispetto al 1990: molto meno di quanto si erano impegnati a fare nel 1997; la Cina invece propone un taglio all’intensità energetica del 40/45% e l’India del 20/25%; su questa strada sembra che nessuno li segua e quindi i due paesi/continenti potranno dire di averlo proposto ma che nessuno ha accettato e quindi continuare con l’inquinamento attuale.
Prima dell’inizio dei lavori e quindi delle proposte ufficiali, ci sono state alcune dichiarazioni che meritano di essere riportate; la prima è del capo della delegazione dell’Arabia Saudita – com’è noto maggiore produttore di petrolio – che propone una singolare equazione: “se per combattere il cambiamento climatico le nazioni ridurranno il consumo di combustibili fossili (petrolio) allora dovranno pagare una compensazione ai paesi produttori”; come dargli torto: dopo avere inquinato per fare arricchire tutti i vari sceicchi del Golfo Persico, non è proprio il caso di smettere: ormai sono abituati a questi ritmi e non possono certo ridurre le spese (mogli, cavalli da corsa, palazzi sontuosi, auto di lusso, ecc.).
Curiosa anche la proposta di Paul McCartney indirizzata all’abolizione della carne nel menu delle nostre tavole: “una bistecca inquina più di un’auto”; per la verità non spiega quale sia il processo da cui deriva quanto sopra, ma forse pensa che noi si capisca lo stesso: io non l’ho capito, e voi?
E per concludere, molto spiritoso il cartellone fatto affiggere da Greenpeace nelle strade di Copenaghen in cui si vede un Obama incanutito, ripreso tra venti anni, mentre dice: “mi dispiace per quanto non è stato fatto per salvare il Mondo”. Potremmo rispondergli che non si accettano scusanti. Ma mi sembra inutile, pensando che pochi tra noi ci saranno tra venti anni per vedere cosa è successo!
Il problema è racchiuso molto bene nelle parole usate dal Capo Delegazione dei Paesi in via di sviluppo: “i Paesi ricchi hanno creato il problema e non hanno mantenuto – Europa esclusa – gli impegni di Kyoto; non possono coinvolgere i Paesi in via di sviluppo in accordi vincolanti e – per loro – penalizzanti”; insomma si ritorna a quanto già detto: senza energia non si progredisce e i Paesi in via di sviluppo questo slogan lo conoscono fin troppo bene.
domenica, dicembre 06, 2009
FIAT VOLUNTAS TUA ?
È in corso, durante queste ultime settimane, una sorta di “braccio di ferro” tra la FIAT e il Ministero dell’Industria, capitanato da Claudio Scajola; vediamo anzitutto – come di consueto – i termini della questione.
L’azienda automobilistica torinese, dopo avere invocato il rinnovo degli incentivi anche per il prossimo anno, ha cominciato a prendere le distanze dalla “sua” fabbrica di Termini Imerese, pronosticando per questa struttura un futuro, più i meno prossimo, di riconversione ad altre produzioni, in quanto la fabbricazione delle auto in quel sito è – a detta della FIAT – fortemente penalizzante: si parla addirittura di una “rimessa” di 1000 euro per prodotto uscito da Termini, rispetto ad analoga automobile prodotta in altro sito industriale.
Da qui il discorso si sposta sui soldi: la FIAT deve avere probabilmente detto al ministero che non è in grado di sopportare questo onere produttivo e quindi di riversare tale “rimessa” nelle casse dello Stato; in quale modo? Con un apposito incentivo, questa volga alla produzione anziché al consumo.
Fin qui è tutto chiaro: da una parte c’è una azienda che cerca di ridurre un costo aggiuntivo e dall’altra c’è lo Stato che sa bene come una chiusura o un ridimensionamento di uno stabilimento industriale in una zona già fortemente depressa come la Sicilia, provocherebbe grosse conseguenze sul piano sociale.
Ed allora ecco la mossa “a sorpresa” del Ministro Scajola: in una intervista ha dichiarato che la FIAT immatricola in Italia molte più auto di quelle che ne produce e quindi sarebbe l’ora di equilibrare questi dati, cioè di arrivare a produrre più auto nel Paese dal quale riceve aiuti ed Assistenza (in svariate forme).
Dobbiamo convenire che il concetto espresso dal ministro non fa una piega e si concretizza in questo: poiché al momento gli incentivi sono “al consumo”, lo Stato fornisce contributi per autoveicoli che vengono prodotti in altri Paesi magari dove la mano d’opera è a più basso livello e le condizioni che la FIAT riceve da quello Stato sono decisamente migliori; la sintesi sarebbe questa: vai a farti dare gli incentivi dalla Polonia o dal Brasile, luoghi dove sorgono imponenti strutture industriali del colosso torinese.
Insomma, i dati che Scajola ha fornito alla dirigenza FIAT in attesa dell’incontro del 21 dicembre, sono i seguenti: nell’intera Europa, la produzione automobilistica è generalmente superiore alle richieste del mercato interno (in Germania si produce il 179% della domanda, in Spagna il 166%, in Francia il 105%); solo due paesi sono in contro tentenna: la Gran Bretagna con un 68% di produzione e, dato ancora maggiore, l’Italia con appena il 30% del mercato prodotto in casa.
Tra l’altro, al momento la FIAT produce in Italia circa 600mila auto, ma in passato questo dato è stato di 1,6milioni; si chiede il Ministro – e mi chiedo anch’io – perché non si può tornare alla produzione di un tempo, stante anche le problematiche dell’occupazione innescate dalla crisi e ancora non sopite?
Certo che questo concetto sfiora il protezionismo, anche se non lo investe in pieno, ma ha una sua logica che i dirigenti torinesi non possono negare ed anche l’Europa credo che sarebbe molto più appagata se questi incentivi beneficiassero la reale produzione dell’autoveicolo.Ma in Italia e ancora di più in Europa, quando una cosa è “semplice e logica”, trova maggiori ostacoli di quelle “astruse e complicate”: che vorrà dire??
L’azienda automobilistica torinese, dopo avere invocato il rinnovo degli incentivi anche per il prossimo anno, ha cominciato a prendere le distanze dalla “sua” fabbrica di Termini Imerese, pronosticando per questa struttura un futuro, più i meno prossimo, di riconversione ad altre produzioni, in quanto la fabbricazione delle auto in quel sito è – a detta della FIAT – fortemente penalizzante: si parla addirittura di una “rimessa” di 1000 euro per prodotto uscito da Termini, rispetto ad analoga automobile prodotta in altro sito industriale.
Da qui il discorso si sposta sui soldi: la FIAT deve avere probabilmente detto al ministero che non è in grado di sopportare questo onere produttivo e quindi di riversare tale “rimessa” nelle casse dello Stato; in quale modo? Con un apposito incentivo, questa volga alla produzione anziché al consumo.
Fin qui è tutto chiaro: da una parte c’è una azienda che cerca di ridurre un costo aggiuntivo e dall’altra c’è lo Stato che sa bene come una chiusura o un ridimensionamento di uno stabilimento industriale in una zona già fortemente depressa come la Sicilia, provocherebbe grosse conseguenze sul piano sociale.
Ed allora ecco la mossa “a sorpresa” del Ministro Scajola: in una intervista ha dichiarato che la FIAT immatricola in Italia molte più auto di quelle che ne produce e quindi sarebbe l’ora di equilibrare questi dati, cioè di arrivare a produrre più auto nel Paese dal quale riceve aiuti ed Assistenza (in svariate forme).
Dobbiamo convenire che il concetto espresso dal ministro non fa una piega e si concretizza in questo: poiché al momento gli incentivi sono “al consumo”, lo Stato fornisce contributi per autoveicoli che vengono prodotti in altri Paesi magari dove la mano d’opera è a più basso livello e le condizioni che la FIAT riceve da quello Stato sono decisamente migliori; la sintesi sarebbe questa: vai a farti dare gli incentivi dalla Polonia o dal Brasile, luoghi dove sorgono imponenti strutture industriali del colosso torinese.
Insomma, i dati che Scajola ha fornito alla dirigenza FIAT in attesa dell’incontro del 21 dicembre, sono i seguenti: nell’intera Europa, la produzione automobilistica è generalmente superiore alle richieste del mercato interno (in Germania si produce il 179% della domanda, in Spagna il 166%, in Francia il 105%); solo due paesi sono in contro tentenna: la Gran Bretagna con un 68% di produzione e, dato ancora maggiore, l’Italia con appena il 30% del mercato prodotto in casa.
Tra l’altro, al momento la FIAT produce in Italia circa 600mila auto, ma in passato questo dato è stato di 1,6milioni; si chiede il Ministro – e mi chiedo anch’io – perché non si può tornare alla produzione di un tempo, stante anche le problematiche dell’occupazione innescate dalla crisi e ancora non sopite?
Certo che questo concetto sfiora il protezionismo, anche se non lo investe in pieno, ma ha una sua logica che i dirigenti torinesi non possono negare ed anche l’Europa credo che sarebbe molto più appagata se questi incentivi beneficiassero la reale produzione dell’autoveicolo.Ma in Italia e ancora di più in Europa, quando una cosa è “semplice e logica”, trova maggiori ostacoli di quelle “astruse e complicate”: che vorrà dire??