sabato, settembre 16, 2006
LETTERA APERTA A ORIANA FALLACI
Carissima Oriana, scusami anzitutto il “tu” con il quale oso rivolgermi a Te che sei sempre stata una spanna, ma che dico una spanna, dieci spanne, avanti a tutti noi, tutti noi che pensiamo di comprendere quello che succede nel mondo e di riversarlo in alcune nostre riflessioni.
Mi scuso anche della formula “lettera aperta” che è forse assai vieta e consunta dal tempo, ma che rende bene l’idea di quello che si vuole dire e soprattutto, mi consente di avere un “virtuale” colloquio con Te.
Le Tue doti sono state sempre tante e multiformi, ma quella che per me ha rappresentato la “summa” di tutte le doti è quella di essere stata fino in fondo “politically incorrect”, cioè hai sempre detto quello che pensavi senza prima riflettere se il sistema, il potere, consentiva di dire ciò.
E così in pieno peana per gli americani, Tu – ancora giovanissima – andasti in Viet Nam e regalasti a tutti noi una serie straziante di ritratti di orrori, cattiverie, bestialità; e documentasti anche l’insipienza dell’esercito americano che, proprio perché stava perdendo quella campagna, si abbandonava a violenza spesso gratuite sulla popolazione civile.
Ed allo stesso modo negli anni più vicini a noi, in piena campagna anti americana (peraltro ancora in corso), Tu hai avuto il coraggio di schierarti all’opposto, di difendere anche alcune scelte indifendibili ma che a Te sono apparse come unico antidoto per un male che nessuno riusciva (e neppure adesso riesce) a vedere, cioè il pericolo del revanscismo islamico verso l’occidente.
Ed hai bollato di “calabrachismo” tutti i governanti europei, addirittura anche il Papa di allora (Wojtila), fregandotene se restavi sola ed abbandonata da tutti, anche dagli amici, ma ferma nella Tua idea che non Ti consentiva di deflettere neanche di un millimetro dalla Tua linea di combattimento.
Se penso che il nostro Presidente della Repubblica, richiesto di un commento sulla Tua morte, ha detto che era “ammirabile il tuo modo di combattere il male che da anni stava minando il tuo fisico”- e basta! – e che il suo predecessore, Ciampi, non aveva avuto il coraggio di nominarti sonatore a vita nonostante le oltre 100.000 firme raccolte da Vittorio Feltri in tuo favore, vedo bene che il cammino della nostra civiltà su un sentiero di rettitudine e di impegno civile è lungi dall’iniziare; per ora vince il “business”, per ora si fa tutto in favore del “business”, per ora il nostro signore e padrone è il “business”.
Una soddisfazione però sei riuscita a togliertela, nell’assistere di lassù alla polemica per le frasi pronunciate dal Papa attuale sull’Islam: chissà come avrai sghignazzato nel vedere la polemica, strumentale fin che si vuole, ma sempre polemica, che agita le cancellerie di alcuni stati a maggioranza islamica, come il Pakistan, l’Iran, l’Egitto e la Turchia; e avrai pensato che – così come gli uomini – anche i Papi non sono tutti uguali, per fortuna.
Sarai sempre nei nostri pensieri, ma non sarai più con noi; sarai sempre nei nostri discorsi, ma Tu non potrai farne più: ci resta l’esempio, il Tuo esempio, così tanto difficile da seguire che nessuno di noi – temo - sia in grado di potertelo promettere.
Mi scuso anche della formula “lettera aperta” che è forse assai vieta e consunta dal tempo, ma che rende bene l’idea di quello che si vuole dire e soprattutto, mi consente di avere un “virtuale” colloquio con Te.
Le Tue doti sono state sempre tante e multiformi, ma quella che per me ha rappresentato la “summa” di tutte le doti è quella di essere stata fino in fondo “politically incorrect”, cioè hai sempre detto quello che pensavi senza prima riflettere se il sistema, il potere, consentiva di dire ciò.
E così in pieno peana per gli americani, Tu – ancora giovanissima – andasti in Viet Nam e regalasti a tutti noi una serie straziante di ritratti di orrori, cattiverie, bestialità; e documentasti anche l’insipienza dell’esercito americano che, proprio perché stava perdendo quella campagna, si abbandonava a violenza spesso gratuite sulla popolazione civile.
Ed allo stesso modo negli anni più vicini a noi, in piena campagna anti americana (peraltro ancora in corso), Tu hai avuto il coraggio di schierarti all’opposto, di difendere anche alcune scelte indifendibili ma che a Te sono apparse come unico antidoto per un male che nessuno riusciva (e neppure adesso riesce) a vedere, cioè il pericolo del revanscismo islamico verso l’occidente.
Ed hai bollato di “calabrachismo” tutti i governanti europei, addirittura anche il Papa di allora (Wojtila), fregandotene se restavi sola ed abbandonata da tutti, anche dagli amici, ma ferma nella Tua idea che non Ti consentiva di deflettere neanche di un millimetro dalla Tua linea di combattimento.
Se penso che il nostro Presidente della Repubblica, richiesto di un commento sulla Tua morte, ha detto che era “ammirabile il tuo modo di combattere il male che da anni stava minando il tuo fisico”- e basta! – e che il suo predecessore, Ciampi, non aveva avuto il coraggio di nominarti sonatore a vita nonostante le oltre 100.000 firme raccolte da Vittorio Feltri in tuo favore, vedo bene che il cammino della nostra civiltà su un sentiero di rettitudine e di impegno civile è lungi dall’iniziare; per ora vince il “business”, per ora si fa tutto in favore del “business”, per ora il nostro signore e padrone è il “business”.
Una soddisfazione però sei riuscita a togliertela, nell’assistere di lassù alla polemica per le frasi pronunciate dal Papa attuale sull’Islam: chissà come avrai sghignazzato nel vedere la polemica, strumentale fin che si vuole, ma sempre polemica, che agita le cancellerie di alcuni stati a maggioranza islamica, come il Pakistan, l’Iran, l’Egitto e la Turchia; e avrai pensato che – così come gli uomini – anche i Papi non sono tutti uguali, per fortuna.
Sarai sempre nei nostri pensieri, ma non sarai più con noi; sarai sempre nei nostri discorsi, ma Tu non potrai farne più: ci resta l’esempio, il Tuo esempio, così tanto difficile da seguire che nessuno di noi – temo - sia in grado di potertelo promettere.
giovedì, settembre 14, 2006
SPIRITUALITA' FEMMINILE
Non vi allarmate dal titolo di questo post; non intendo fare un trattato sulla psicologia
delle donne (come se poi fosse molto diversa da quella degli uomini!!), ma solo riportare il titolo di uno dei progetti di una regione del Centro Italia finiti nel mirino della Corte dei Conti e sottoposti a inchiesta: a proposito, mi dimenticavo di dire che per questo progetto sono stati spesi 100.000 euro; non conosco il nome del fortunato che ha incassato la cifra.
Questo mi serve perché, in un periodo nel quale lo Stato cerca di tagliare da tutte le parti e si risolve – come di consueto – a taglieggiare i soliti disperati (sanità, cioè malati, e pensioni, cioè persone che hanno lavorato una vita e non arrivano alla fine del mese), forse sarebbe il caso di affrontare il capitolo spesa in modo diverso, come del resto ho già avuto modo di dire in questi anni più di una volta.
Ci deve essere ben chiaro a tutti che il capitolo “consulenze” è l’anticamera dell’appropriazione indebita, in quanto sono nient’altro che delle prebende assegnate a famigli, sodali e amici di partito, quale ricompensa per il lavoro svolto per fare eleggere il candidato X e per far vincere il Partito Y.
E sia chiaro per tutti che questi progetti, tipo la spiritualità femminile oppure l’altro che voglio citare “le televendite sui network regionali” del costo di 40.000 euro, non rivestono alcun valore, né sotto il profilo culturale e neppure sul piano pratico dell’accesso a nuove conoscenze, tant’è vero che non se ne ha neppure notizia, se non in casi come questi di indagine della Corte dei Conti.
A latere di questa vicenda – definirla incresciosa è dire poco – ne esiste un’altra che gli fa il paio: una azienda municipalizzata che ha il bilancio disastrato dai debiti, aumenta i biglietti per l’utenza (del 20% non bruscolini) e, contemporaneamente “premia” cinque suoi dirigenti facendogli spartire un bottino di 120.000 euro, dopo che gli stessi hanno goduto durante l’anno di emolumenti pari a circa 100.000 euro cadauno.
Pensate che si sono risentiti anche gli enti locali che partecipano in qualità di soci a questa municipalizzata e questo è dire tutto; sapete come è stato risposto dalla Presidenza dell’Ente in questione? Semplice, che il contratto con i sullodati dirigenti prevede una parte fissa (e sono i 100.000 euro) ed un’altra legata ad un “premio”.
Ora, a casa mia, il premio viene dato quando si vince qualcosa oppure si raggiunge un qualsiasi obiettivo prefissato, insomma quando si combina qualcosa di buono. E quale sarebbe questo qualcosa di buono se l’Ente risulta disastrato sotto il profilo del bilancio, ricoperto di debiti e costretto ad aumentare il biglietto che i cittadini sono tenuti a pagare per usufruire del servizio e – dulcis in fundo – presentare ai sindacati un piano di ristrutturazione aziendale che prevede tagli del personale.
Non mi sembra che questi signori – dei quali non conosco neppure il nome – siano meritevoli di un qualsiasi premio, ma forse dopo l’esperienza disastrosa degli ultimi due o tre anni, di qualcosa che assomiglia più ad un calcio nel sedere.
Mi si obbietterà che queste spese (o sprechi) degli Enti locali poco influiscono sulla finanziaria che il Governo si accinge a mettere in cantiere, e invece invito tutti a riflettere sulla circostanza che il Ministro dell’Economia, nel momento stesso che ha ventilato dei tagli ai fondi per la periferia, si è visto subissato di critiche ed ha dovuto ripristinare la maggiorazione dell’aliquota IRPEF a favore di Comuni e Province, come a dire che non si può fare a meno neppure di un euro, perché sennò come facciamo a “premiare” i nostri dirigenti, oppure a conferire le consulenze sulla spiritualità di “qualcosa”?
delle donne (come se poi fosse molto diversa da quella degli uomini!!), ma solo riportare il titolo di uno dei progetti di una regione del Centro Italia finiti nel mirino della Corte dei Conti e sottoposti a inchiesta: a proposito, mi dimenticavo di dire che per questo progetto sono stati spesi 100.000 euro; non conosco il nome del fortunato che ha incassato la cifra.
Questo mi serve perché, in un periodo nel quale lo Stato cerca di tagliare da tutte le parti e si risolve – come di consueto – a taglieggiare i soliti disperati (sanità, cioè malati, e pensioni, cioè persone che hanno lavorato una vita e non arrivano alla fine del mese), forse sarebbe il caso di affrontare il capitolo spesa in modo diverso, come del resto ho già avuto modo di dire in questi anni più di una volta.
Ci deve essere ben chiaro a tutti che il capitolo “consulenze” è l’anticamera dell’appropriazione indebita, in quanto sono nient’altro che delle prebende assegnate a famigli, sodali e amici di partito, quale ricompensa per il lavoro svolto per fare eleggere il candidato X e per far vincere il Partito Y.
E sia chiaro per tutti che questi progetti, tipo la spiritualità femminile oppure l’altro che voglio citare “le televendite sui network regionali” del costo di 40.000 euro, non rivestono alcun valore, né sotto il profilo culturale e neppure sul piano pratico dell’accesso a nuove conoscenze, tant’è vero che non se ne ha neppure notizia, se non in casi come questi di indagine della Corte dei Conti.
A latere di questa vicenda – definirla incresciosa è dire poco – ne esiste un’altra che gli fa il paio: una azienda municipalizzata che ha il bilancio disastrato dai debiti, aumenta i biglietti per l’utenza (del 20% non bruscolini) e, contemporaneamente “premia” cinque suoi dirigenti facendogli spartire un bottino di 120.000 euro, dopo che gli stessi hanno goduto durante l’anno di emolumenti pari a circa 100.000 euro cadauno.
Pensate che si sono risentiti anche gli enti locali che partecipano in qualità di soci a questa municipalizzata e questo è dire tutto; sapete come è stato risposto dalla Presidenza dell’Ente in questione? Semplice, che il contratto con i sullodati dirigenti prevede una parte fissa (e sono i 100.000 euro) ed un’altra legata ad un “premio”.
Ora, a casa mia, il premio viene dato quando si vince qualcosa oppure si raggiunge un qualsiasi obiettivo prefissato, insomma quando si combina qualcosa di buono. E quale sarebbe questo qualcosa di buono se l’Ente risulta disastrato sotto il profilo del bilancio, ricoperto di debiti e costretto ad aumentare il biglietto che i cittadini sono tenuti a pagare per usufruire del servizio e – dulcis in fundo – presentare ai sindacati un piano di ristrutturazione aziendale che prevede tagli del personale.
Non mi sembra che questi signori – dei quali non conosco neppure il nome – siano meritevoli di un qualsiasi premio, ma forse dopo l’esperienza disastrosa degli ultimi due o tre anni, di qualcosa che assomiglia più ad un calcio nel sedere.
Mi si obbietterà che queste spese (o sprechi) degli Enti locali poco influiscono sulla finanziaria che il Governo si accinge a mettere in cantiere, e invece invito tutti a riflettere sulla circostanza che il Ministro dell’Economia, nel momento stesso che ha ventilato dei tagli ai fondi per la periferia, si è visto subissato di critiche ed ha dovuto ripristinare la maggiorazione dell’aliquota IRPEF a favore di Comuni e Province, come a dire che non si può fare a meno neppure di un euro, perché sennò come facciamo a “premiare” i nostri dirigenti, oppure a conferire le consulenze sulla spiritualità di “qualcosa”?
martedì, settembre 12, 2006
RIENTRO E TROVO LA SOLITA MINESTRA
Durante le due settimane trascorse a Venezia seguendo i film presentati alla 63° Mostra del Cinema, i fatti della politica, della cronaca nera, insomma il pane quotidiano dei nostri giornali, mi giungevano come attutiti, come voci lontane; adesso che sono rientrato in piena attività, adesso che ho ripreso a scorrere più di un giornale ed a vedere più di un telegiornale, mi accorgo che non è cambiato niente, la vita ci riserva la solita minestra più o meno riscaldata.
Due eventi, molto diversi l’uno dall’altro, colpiscono la mia fantasia: il primo si riferisce al famoso viaggio che partirà domani alla volta della Cina e che porterà in quel Paese lontano un migliaio di persone, tra politici, industriali e…altri.
Tutto questo mi ricorda un analogo viaggio messo in piedi da Craxi quand’era Primo Ministro e che conteneva un alto numero di partecipanti: in quell’occasione venne coniata la frase “si è circondato di nani e ballerine”, per significare che molti dei partecipanti non avevano alcun titolo a stare in quel luogo.
E adesso? E adesso cosa diciamo? Come definiamo le decine (o forse sono centinaia?) di persone che non c’entrano niente né con il Governo, né con la Confindustria e neppure con la Cina?.
Comunque, di una cosa sono certo: quello che anche questo Governo – come quello di allora – non avrà nessuna intenzione di fare, sarà di andare a chiedere conto ai governanti cinesi dei diritti umani completamente calpestati in Cina, dell’impossibilità di fare più di un figlio, dell’impossibilità di seguire una qualunque religione e di tante altre “impossibilità”. Di queste cose non si parlerà, per non offendere i padroni di casa, magari si parlerà invece del film al quale è stato assegnato il Leone d’Oro a Venezia e di altre facezie del genere, attendendo comunque il momento per sottoscrivere un buon contratto, buono non solo per il popolo italiano, ma soprattutto per chi lo sottoscrive.
Il secondo fatto è accaduto in Veneto e ha per protagonista un giovanissimo (22 anni) che ha ucciso la nonna di 92 a martellate perché quest’ultima di era rifiutata di dargli 20 euro per andare a giocare al videopoker.
Fermo restando l’orrore per la vicenda, vorrei fare un paio di commenti: il primo si riferisce ai primi sospetti (gli extracomunitari) che sono rimasti tali fino a che il nipote non si è costituito ed ha confessato; il secondo è che ormai qui da noi, quando si tratta di “efferati delitti”, ci viene spontaneo accostarli agli extracomunitari e, quando questi invece sono innocenti, ci rimaniamo quasi male. È vero o no?!
Per la brava borghesia benpensante, ormai è logico fare l’accostamento tra violenza sessuale e magrebino, anche se le statistiche ci dicono esattamente il contrario: la maggior parte delle violenza accade tra le mura domestiche e, nel complesso dei delitti e delle violenze a sfondo sessuale, i “non italiani” sono una esigua minoranza”.
È ancora la paura dell’”uomo nero” che ci viene inculcata fin da piccoli attraverso le favole? È la paura del “diverso” che ingenera in tutti noi una sorta di premeditazione nel sospettare?
Sia come sia, quando a commettere un efferato delitto è un “nostrale” andiamo alla ricerca di tutte le attenuanti possibili, quando sono “gli altri” a commetterlo, ci viene spontaneo affermare “l’avevo detto che non c’era da fidarsi!!”.
È vero o no?!
Due eventi, molto diversi l’uno dall’altro, colpiscono la mia fantasia: il primo si riferisce al famoso viaggio che partirà domani alla volta della Cina e che porterà in quel Paese lontano un migliaio di persone, tra politici, industriali e…altri.
Tutto questo mi ricorda un analogo viaggio messo in piedi da Craxi quand’era Primo Ministro e che conteneva un alto numero di partecipanti: in quell’occasione venne coniata la frase “si è circondato di nani e ballerine”, per significare che molti dei partecipanti non avevano alcun titolo a stare in quel luogo.
E adesso? E adesso cosa diciamo? Come definiamo le decine (o forse sono centinaia?) di persone che non c’entrano niente né con il Governo, né con la Confindustria e neppure con la Cina?.
Comunque, di una cosa sono certo: quello che anche questo Governo – come quello di allora – non avrà nessuna intenzione di fare, sarà di andare a chiedere conto ai governanti cinesi dei diritti umani completamente calpestati in Cina, dell’impossibilità di fare più di un figlio, dell’impossibilità di seguire una qualunque religione e di tante altre “impossibilità”. Di queste cose non si parlerà, per non offendere i padroni di casa, magari si parlerà invece del film al quale è stato assegnato il Leone d’Oro a Venezia e di altre facezie del genere, attendendo comunque il momento per sottoscrivere un buon contratto, buono non solo per il popolo italiano, ma soprattutto per chi lo sottoscrive.
Il secondo fatto è accaduto in Veneto e ha per protagonista un giovanissimo (22 anni) che ha ucciso la nonna di 92 a martellate perché quest’ultima di era rifiutata di dargli 20 euro per andare a giocare al videopoker.
Fermo restando l’orrore per la vicenda, vorrei fare un paio di commenti: il primo si riferisce ai primi sospetti (gli extracomunitari) che sono rimasti tali fino a che il nipote non si è costituito ed ha confessato; il secondo è che ormai qui da noi, quando si tratta di “efferati delitti”, ci viene spontaneo accostarli agli extracomunitari e, quando questi invece sono innocenti, ci rimaniamo quasi male. È vero o no?!
Per la brava borghesia benpensante, ormai è logico fare l’accostamento tra violenza sessuale e magrebino, anche se le statistiche ci dicono esattamente il contrario: la maggior parte delle violenza accade tra le mura domestiche e, nel complesso dei delitti e delle violenze a sfondo sessuale, i “non italiani” sono una esigua minoranza”.
È ancora la paura dell’”uomo nero” che ci viene inculcata fin da piccoli attraverso le favole? È la paura del “diverso” che ingenera in tutti noi una sorta di premeditazione nel sospettare?
Sia come sia, quando a commettere un efferato delitto è un “nostrale” andiamo alla ricerca di tutte le attenuanti possibili, quando sono “gli altri” a commetterlo, ci viene spontaneo affermare “l’avevo detto che non c’era da fidarsi!!”.
È vero o no?!
domenica, settembre 10, 2006
ECCOMI TORNATO DA VENEZIA
Come avevo promesso il 27 agosto, appena tornato dalla Mostra del Cinema di Venezia, sono subito a fornirvi un resoconto di quanto accaduto: anzitutto l’atmosfera che si respirava non era delle migliori, in quanto nessuno dei tanti politici presentatosi a fare passerella ha potuto assicurare un qualche forma di intervento contro l’analoga (o quasi) manifestazione che si terrà a Roma tra un mese circa; e questo è stato visto come uno schiaffo alla vecchia mostra che festeggiava quest’anno il 63esimo compleanno e che il prossimo anno ha annunciato una gustosa novità: una Sezione interamente dedicata al cinema gay; staremo a vedere!
Cosa dire dei premi? Scontato quello di migliore attrice a Helen Mirren per l’interpretazione di Elisabetta II nel film “The Queen”, il leone d’oro è stato assegnato ad un film cinese dal titolo impronunciabile (“Sanxia Haoren”) e agli italiani sono andate le briciole: appena un Leone d’argento “rivelazione” (inventato per l’occasione) al film di Crialese “Nuovomondo”; confesso subito che non sono in sintonia con la Giuria, in quanto il mio candidato era “La Stella che non c’è” di Gianni Amelio che a mio giudizio avrebbe meritato se non il Leone d’Oro, almeno quello d’argento, entrambi invece attribuiti ad opere straniere.
Non vorrei però che il mio giudizio fosse inquinato dall’ammirazione del protagonista del film – interpretato da uno splendido Sergio Castellitto – anche perché ho trovato grosse somiglianze, sotto il profilo umano e psicologico, con un mio caro amico.
Comunque sia, poiché il film uscirà senz’altro a breve nelle sale italiane, vi fornisco, qui di seguito, l’articolo che ho scritto subito dopo averlo visto:
E’ la storia di Vincenzo Bonavolontà (il cognome è tutto un programma per le avventure che seguiranno), manutentore specializzato di un altoforno che viene smantellato e venduto in blocco ai cinese; ovviamente tutte le maestranze sono a casa e, mentre si stanno definendo gli ultimi accordi, gli operai sfilano sotto la fabbrica con cartelli e striscioni; Vincenzo, invece di sfilare, chiede di essere ricevuto dal capo della delegazione cinese, Chong, e – attraverso le stentate traduzioni di una ragazzina, Liu Hua – informa gli acquirenti che l’altoforno ha un difetto che ha già provocato gravi problemi, compresi dei danni alle maestranze; la traduzione della ragazza non è delle più fedeli e Vincenzo arriva ad arrabbiarsi e a “sostituire” la giovane Liu nella traduzione del problema che, lui è certo di risolvere entro la data dello smantellamento delle attrezzature, smantellamento che si raccomanda di effettuare con calma e non usando la fiamma ossidrica per risparmiare tempo.
Ovviamente i cinesi se ne fregano dei consigli del signor Bonavolontà e – usando la fiamma ossidrica – smantellano tutta la fabbrica in un tempo record, cosicché Vincenzo, quando arriva con una valvola da lui modificata, non trova più niente: il materiale è già partito per la Cina.
Armato di una incredibile buona volontà –ecco il richiamo al cognome – il nostro Vincenzo non si perde d’animo e si reca a Shangai dove ha la prima sorpresa: coloro che hanno condotto l’affare in Italia sono nient’altro che dei “brokers” che hanno acquistato la fabbrica per poi rivenderla in Cina e, il signor Chong che aveva condotto la trattativa non è più con la loro azienda, è stato “dismesso”, come dicono loro e, per quanto riguarda l’azienda destinataria del materiale, non sanno o non vogliono dire il nome.
Neppure queste difficoltà “smontano” Vincenzo che, dovendo affrontare una ricerca, si mette alla caccia di Liu, la giovane interprete conosciuta in Italia; all’inizio la ragazza gli tiene il muso perché l’intervento dell’uomo al tavolo della trattativa aveva fatto licenziare la giovane, ma poi, forse per simpatia, forse attratta dalla possibilità di guadagnare dei soldi, accetta di accompagnarlo.
Nella prima fabbrica i due non arrivano neppure a parlare con i dirigenti, perché già a livello di “sicurezza” vengono bloccati e Vincenzo, per colpa della valvola sospetta, viene considerato addirittura un bombarolo ed incarcerato; liberato per l’intervento della ragazza, decide di continuare la ricerca della fabbrica ed inizia un viaggio che lo porta dalle acque del Fiume Azzurro fino alle porte della Mongolia: i due si fermeranno nel villaggio natio di Liu, dove Vincenzo conosce la nonna e il figlio segreto della ragazza, addentrandosi sempre più nella Cina arcaica da tutti conosciuta: finalmente in una cittadina troveranno la fabbrica che ha l’altoforno acquistato in Italia: Vincenzo consegna il suo marchingegno ad un operaio che, con grande indifferenza annuncia ai compagni che è arrivata dall’Italia “un’altra” valvola e la getta in un bidone dei rifiuti.
Vincenzo e Liu che si erano persi in una fermata del viaggio, si ritrovano in una stazione ferroviaria e entrambi – seduti vicini – guardano verso l’orizzonte: lei gli chiede (in cinese) se è riuscito a consegnare la valvola e lui gli risponde che ha avuto fortuna.
La struttura narrativa si compone di quattro parti abbastanza ben distinte tra loro: la prima va dalla vendita dell’acciaieria all’arrivo di Vincenzo in Cina ed al primo insuccesso nella ricerca della fabbrica cui consegnare la valvola modificata. In questo blocco abbiamo una prima visione della realtà cinese (precisamente di Shangai, autentica megalopoli) con i numerosi grattacieli, le migliaia di biciclette che ci sono nelle strade, ma con la solita burocrazia aziendale che esiste anche da noi (tutto il mondo è paese!), laddove Vincenzo, anziché essere ringraziato per avere sostenuto a sue spese l’intervento sulla valvola ed essere poi venuto a consegnare il risultato direttamente in Cina, viene accolto freddamente e, in pratica, invitato a togliersi rapidamente di torno.
Ma il signor Buonavolontà non si arrende – e qui inizia la seconda parte del film – e, in compagnia della ragazza, inizia un viaggio che lo porta ad attraversare varie parti della Cina e, dalle città (loro le chiamano cittadine ma hanno 8 milioni di abitanti) con enormi grattacieli, la cui caratteristica è quella di non avere ascensore fino al decimo piano e di averne uno dal decimo in poi, ma a pagamento. Comincia così a conoscere un po’ meglio quello smisurato paese, con le sue bellezze mozzafiato (il Fiume Azzurro) e le rovine ambientali (lo stesso fiume che è stato utilizzato per una gigantesca diga che porterà elettricità a varie provincie, ma che ha costretto due milioni di cinesi ad andarsene dalle proprie case. Conosce anche la Cina rurale del villaggio dove abita la nonna e il figlio (segreto, perché il padre non lo ha riconosciuto), dove la realtà che si respira è tutta diversa da quella della Cina che avanza, con le proprie conquiste e la propria tecnologia.
Ed è in questo blocco che Vincenzo comincia a premere su Liu perché lo lasci proseguire da solo nella ricerca e se ne torni dalla nonna e dal bambino: la ragazza non accetta e vuole terminare quella che lei forse considera una sorta di missione; approfittando di una dormita della fanciulla, Vincenzo l’abbandona –lasciandole comunque molti soldi – e continua la ricerca della fabbrica con l’altoforno italiano.
Nell’ultimo blocco abbiamo il coronamento delle fatiche di Vincenzo che, finalmente, riesce a trovare la fabbrica cui consegnare la nuova valvola: il signor Buonavolontà che troviamo in quest’ultima città è ben diverso da quello che ha iniziato la ricerca, forse perché è senza Liu, forse perché si sta rendendo conto dell’inutilità di tutte le sue fatiche, fatto sta che la valvola –anziché ad un alto esponente dell’azienda – viene affidata al primo operaio che trova, senza fornire spiegazioni, senza attendere ringraziamenti, desideroso soltanto di considerare conclusa questa avventura.
E poi abbiamo l’epilogo, la scena girata alla stazione dove si ritrova Vincenzo, indirizzatovi anche da un buffo cinese con una strana mimica, e dove si trova a sedere sul bordo della pensilina accanto a Liu, che – a spiegazione di come abbia fatto ad arrivare – commenta che “la strada diritta è sempre la più breve e che i binari del treno sono i più diritti”.
E la ragazza rivolge a Vincenzo la domanda (in cinese) che – dalla risposta – è una richiesta di come sia andata con la valvola e alla quale Vincenzo risponde (quindi ha capito cosa la ragazza gli ha chiesto) che “è andato tutto bene, ho avuto fortuna”; e sulle immagini dei due seduti accanto – ma non vicinissimi – che guardano verso l’orizzonte il film termina.
L’opera è costruita attorno al personaggio di Vincenzo, un uomo nervoso (così lo definisce Liu) ma intriso di valori antichi ma sempre attualissimi, anche se forse fuori moda (da notare che l’uomo dice alla ragazza che forse è venuta l’ora che anche lui acquisti un cellulare) e questi valori vengono portati in un paese che – partendo da pilastri di saggezza – sta costruendo un paese sempre più moderno ma anche pieno di forti contraddizioni.
In questo contesto esiste il rapporto umano tra Vincenzo e Liu che termina con lei che gli rivolge l’ultima domanda riappropriandosi della sua lingua e con lui che capisce questa domanda e gli risponde in italiano: in pratica, l’unione tra i due personaggi avverrà sulle loro intrinseche caratteristiche nazionali, senza che vi sia “conquista” da parte di nessuno di loro; ma se poi questo legame ci sarà e produrrà effetti, se cioè una ragazzina giovanissima ma già piena di “errori” (il figlio avuto da uno che l’ha abbandonata, il rapporto troncato con i genitori, il non avere terminato l’Università, ecc) potrà essere in sintonia con una sorta di “orso”, buono ma brontolone, solitario e pieno di fissazioni come Vincenzo, il film non lo esplicita e il regista lascia i due personaggi seduti l’uno accanto all’altro, senza far loro compiere nessun gesto che ci possa indicare il loro futuro: forse l’autore ha avuto anche un senso di pudore che lo ha indotto a trattare in questo modo questi due splendidi personaggi.
Film quindi che giudico buono, anzi molto buono, direi da premiare, con la puntualizzazione che la prima parte dell’opera è superiore alla seconda, laddove esistono alcune cedenze di ordine strutturale e con qualche caduta di ritmo che però non inficia la validità dell’intero impianto cinematografico.
Cosa dire dei premi? Scontato quello di migliore attrice a Helen Mirren per l’interpretazione di Elisabetta II nel film “The Queen”, il leone d’oro è stato assegnato ad un film cinese dal titolo impronunciabile (“Sanxia Haoren”) e agli italiani sono andate le briciole: appena un Leone d’argento “rivelazione” (inventato per l’occasione) al film di Crialese “Nuovomondo”; confesso subito che non sono in sintonia con la Giuria, in quanto il mio candidato era “La Stella che non c’è” di Gianni Amelio che a mio giudizio avrebbe meritato se non il Leone d’Oro, almeno quello d’argento, entrambi invece attribuiti ad opere straniere.
Non vorrei però che il mio giudizio fosse inquinato dall’ammirazione del protagonista del film – interpretato da uno splendido Sergio Castellitto – anche perché ho trovato grosse somiglianze, sotto il profilo umano e psicologico, con un mio caro amico.
Comunque sia, poiché il film uscirà senz’altro a breve nelle sale italiane, vi fornisco, qui di seguito, l’articolo che ho scritto subito dopo averlo visto:
E’ la storia di Vincenzo Bonavolontà (il cognome è tutto un programma per le avventure che seguiranno), manutentore specializzato di un altoforno che viene smantellato e venduto in blocco ai cinese; ovviamente tutte le maestranze sono a casa e, mentre si stanno definendo gli ultimi accordi, gli operai sfilano sotto la fabbrica con cartelli e striscioni; Vincenzo, invece di sfilare, chiede di essere ricevuto dal capo della delegazione cinese, Chong, e – attraverso le stentate traduzioni di una ragazzina, Liu Hua – informa gli acquirenti che l’altoforno ha un difetto che ha già provocato gravi problemi, compresi dei danni alle maestranze; la traduzione della ragazza non è delle più fedeli e Vincenzo arriva ad arrabbiarsi e a “sostituire” la giovane Liu nella traduzione del problema che, lui è certo di risolvere entro la data dello smantellamento delle attrezzature, smantellamento che si raccomanda di effettuare con calma e non usando la fiamma ossidrica per risparmiare tempo.
Ovviamente i cinesi se ne fregano dei consigli del signor Bonavolontà e – usando la fiamma ossidrica – smantellano tutta la fabbrica in un tempo record, cosicché Vincenzo, quando arriva con una valvola da lui modificata, non trova più niente: il materiale è già partito per la Cina.
Armato di una incredibile buona volontà –ecco il richiamo al cognome – il nostro Vincenzo non si perde d’animo e si reca a Shangai dove ha la prima sorpresa: coloro che hanno condotto l’affare in Italia sono nient’altro che dei “brokers” che hanno acquistato la fabbrica per poi rivenderla in Cina e, il signor Chong che aveva condotto la trattativa non è più con la loro azienda, è stato “dismesso”, come dicono loro e, per quanto riguarda l’azienda destinataria del materiale, non sanno o non vogliono dire il nome.
Neppure queste difficoltà “smontano” Vincenzo che, dovendo affrontare una ricerca, si mette alla caccia di Liu, la giovane interprete conosciuta in Italia; all’inizio la ragazza gli tiene il muso perché l’intervento dell’uomo al tavolo della trattativa aveva fatto licenziare la giovane, ma poi, forse per simpatia, forse attratta dalla possibilità di guadagnare dei soldi, accetta di accompagnarlo.
Nella prima fabbrica i due non arrivano neppure a parlare con i dirigenti, perché già a livello di “sicurezza” vengono bloccati e Vincenzo, per colpa della valvola sospetta, viene considerato addirittura un bombarolo ed incarcerato; liberato per l’intervento della ragazza, decide di continuare la ricerca della fabbrica ed inizia un viaggio che lo porta dalle acque del Fiume Azzurro fino alle porte della Mongolia: i due si fermeranno nel villaggio natio di Liu, dove Vincenzo conosce la nonna e il figlio segreto della ragazza, addentrandosi sempre più nella Cina arcaica da tutti conosciuta: finalmente in una cittadina troveranno la fabbrica che ha l’altoforno acquistato in Italia: Vincenzo consegna il suo marchingegno ad un operaio che, con grande indifferenza annuncia ai compagni che è arrivata dall’Italia “un’altra” valvola e la getta in un bidone dei rifiuti.
Vincenzo e Liu che si erano persi in una fermata del viaggio, si ritrovano in una stazione ferroviaria e entrambi – seduti vicini – guardano verso l’orizzonte: lei gli chiede (in cinese) se è riuscito a consegnare la valvola e lui gli risponde che ha avuto fortuna.
La struttura narrativa si compone di quattro parti abbastanza ben distinte tra loro: la prima va dalla vendita dell’acciaieria all’arrivo di Vincenzo in Cina ed al primo insuccesso nella ricerca della fabbrica cui consegnare la valvola modificata. In questo blocco abbiamo una prima visione della realtà cinese (precisamente di Shangai, autentica megalopoli) con i numerosi grattacieli, le migliaia di biciclette che ci sono nelle strade, ma con la solita burocrazia aziendale che esiste anche da noi (tutto il mondo è paese!), laddove Vincenzo, anziché essere ringraziato per avere sostenuto a sue spese l’intervento sulla valvola ed essere poi venuto a consegnare il risultato direttamente in Cina, viene accolto freddamente e, in pratica, invitato a togliersi rapidamente di torno.
Ma il signor Buonavolontà non si arrende – e qui inizia la seconda parte del film – e, in compagnia della ragazza, inizia un viaggio che lo porta ad attraversare varie parti della Cina e, dalle città (loro le chiamano cittadine ma hanno 8 milioni di abitanti) con enormi grattacieli, la cui caratteristica è quella di non avere ascensore fino al decimo piano e di averne uno dal decimo in poi, ma a pagamento. Comincia così a conoscere un po’ meglio quello smisurato paese, con le sue bellezze mozzafiato (il Fiume Azzurro) e le rovine ambientali (lo stesso fiume che è stato utilizzato per una gigantesca diga che porterà elettricità a varie provincie, ma che ha costretto due milioni di cinesi ad andarsene dalle proprie case. Conosce anche la Cina rurale del villaggio dove abita la nonna e il figlio (segreto, perché il padre non lo ha riconosciuto), dove la realtà che si respira è tutta diversa da quella della Cina che avanza, con le proprie conquiste e la propria tecnologia.
Ed è in questo blocco che Vincenzo comincia a premere su Liu perché lo lasci proseguire da solo nella ricerca e se ne torni dalla nonna e dal bambino: la ragazza non accetta e vuole terminare quella che lei forse considera una sorta di missione; approfittando di una dormita della fanciulla, Vincenzo l’abbandona –lasciandole comunque molti soldi – e continua la ricerca della fabbrica con l’altoforno italiano.
Nell’ultimo blocco abbiamo il coronamento delle fatiche di Vincenzo che, finalmente, riesce a trovare la fabbrica cui consegnare la nuova valvola: il signor Buonavolontà che troviamo in quest’ultima città è ben diverso da quello che ha iniziato la ricerca, forse perché è senza Liu, forse perché si sta rendendo conto dell’inutilità di tutte le sue fatiche, fatto sta che la valvola –anziché ad un alto esponente dell’azienda – viene affidata al primo operaio che trova, senza fornire spiegazioni, senza attendere ringraziamenti, desideroso soltanto di considerare conclusa questa avventura.
E poi abbiamo l’epilogo, la scena girata alla stazione dove si ritrova Vincenzo, indirizzatovi anche da un buffo cinese con una strana mimica, e dove si trova a sedere sul bordo della pensilina accanto a Liu, che – a spiegazione di come abbia fatto ad arrivare – commenta che “la strada diritta è sempre la più breve e che i binari del treno sono i più diritti”.
E la ragazza rivolge a Vincenzo la domanda (in cinese) che – dalla risposta – è una richiesta di come sia andata con la valvola e alla quale Vincenzo risponde (quindi ha capito cosa la ragazza gli ha chiesto) che “è andato tutto bene, ho avuto fortuna”; e sulle immagini dei due seduti accanto – ma non vicinissimi – che guardano verso l’orizzonte il film termina.
L’opera è costruita attorno al personaggio di Vincenzo, un uomo nervoso (così lo definisce Liu) ma intriso di valori antichi ma sempre attualissimi, anche se forse fuori moda (da notare che l’uomo dice alla ragazza che forse è venuta l’ora che anche lui acquisti un cellulare) e questi valori vengono portati in un paese che – partendo da pilastri di saggezza – sta costruendo un paese sempre più moderno ma anche pieno di forti contraddizioni.
In questo contesto esiste il rapporto umano tra Vincenzo e Liu che termina con lei che gli rivolge l’ultima domanda riappropriandosi della sua lingua e con lui che capisce questa domanda e gli risponde in italiano: in pratica, l’unione tra i due personaggi avverrà sulle loro intrinseche caratteristiche nazionali, senza che vi sia “conquista” da parte di nessuno di loro; ma se poi questo legame ci sarà e produrrà effetti, se cioè una ragazzina giovanissima ma già piena di “errori” (il figlio avuto da uno che l’ha abbandonata, il rapporto troncato con i genitori, il non avere terminato l’Università, ecc) potrà essere in sintonia con una sorta di “orso”, buono ma brontolone, solitario e pieno di fissazioni come Vincenzo, il film non lo esplicita e il regista lascia i due personaggi seduti l’uno accanto all’altro, senza far loro compiere nessun gesto che ci possa indicare il loro futuro: forse l’autore ha avuto anche un senso di pudore che lo ha indotto a trattare in questo modo questi due splendidi personaggi.
Film quindi che giudico buono, anzi molto buono, direi da premiare, con la puntualizzazione che la prima parte dell’opera è superiore alla seconda, laddove esistono alcune cedenze di ordine strutturale e con qualche caduta di ritmo che però non inficia la validità dell’intero impianto cinematografico.