sabato, dicembre 02, 2006
L'ALITALIA E IL SUO PRESIDENTE
E’ di ieri la notizia che il Consiglio dei Ministri – per tentare il salvataggio di Alitalia – ha deciso di mettere sul mercato una fetta della sua partecipazione (circa il 20%) facendo così scendere la sua quota di controllo a meno del 30%.
Tutti, o quasi, si stanno riempiendo la bocca con la parola “privatizzazione”, ma in questo caso lo Stato sta liberandosi di un peso e – sia chiaro – che coloro che prendono in mano questa compagnia aerea, a meno di grosse modifiche strutturali, si ritrovano un bel bubbone.
Con la spocchia tipica degli ex ricchi, abbiamo subito cominciato a discettare sui futuri alleati di Alitalia: li preferiamo “italiani”, li vorremmo anche ricchi e, come se non bastasse, preferiremmo una struttura che già facesse parte del mondo aeronautico: come se fosse facile trovare uno che risponda a tutti questi requisiti!!
È stato subito dichiarato che la diminuzione della quota statale dal capitale della compagnia aerea, non avrà – almeno per il momento – ripercussioni sui vertici della società, anche se molti ministri ed esponenti politici puntano il dito sull’operato dell’attuale governance: “dobbiamo chiedere un risarcimento danni a Cimoli”, ha tuonato Pecoraro Scanio.
Consiglio subito i miei lettori di non preoccuparsi per il futuro dell’attuale Presidente di Alitalia, perché – come tutti i furbi – è in una botte di ferro: da poco ha avuto un aumento di stipendio che lo porta a livello di 190.000 euro mensili (quasi quattrocento milioni del vecchio conio) e, qualora le cose andassero in un certo modo ed il Consiglio di Amministrazione lo costringesse a dimettersi, se ne andrebbe insieme ad una “buona uscita” di 8 milioni di euro (quasi 16 miliardi di lire), da notare che lo stesso Cimoli era stato “strappato” alle Ferrovie nel 2004 e, in tale operazione aveva ricevuto un’altra “buona uscita” di 6 milioni e 700 mila euro.
Amici carissimi, questi sono soldi veri e non discorsi! Pensate che quando venne portato a galla lo “scandalo” di queste cifre corrisposte ai manager pubblici, dal governo venne risposto che “se volevamo i migliori dirigenti, bisognava pagarli”; ed infatti li abbiamo pagati, ma non mi sembra che abbiamo preso i migliori, perché il personaggio in questione – Cimoli – è venuto via dalla Ferrovie dopo avere fatto danni ed è approdato in Alitalia per combinare almeno altrettanti danni. Se questi sono i migliori, forse converrebbe cambiare parametro!!
Ma a dilapidare i nostri soldi, il prode Cimoli non è solo, bensì in degna compagnia: Elio Catania, assunto nel 2004 per risanare le Ferrovie, non solo non c’è riuscito, facendo lievitare il deficit fino a 1.6 miliardi di euro, ma ha aggravato il debito dell’azienda da lui diretta con una buona uscita di circa 5 milioni di euro (dieci miliardi o giù di lì).
Notare che queste cifre – sia per gli stipendi che per le liquidazioni – sono da un minimo di tre volte ad un massimo di sei, rispetto ai concorrenti europei di Compagnie Aeree e di Ferrovie.
Sembra che la Procura della Repubblica di Roma abbia aperto un fascicolo su queste retribuzioni “vergognose”, ma l’incartamento non ha una “ipotesi di reato”, in quanto non c’è legge che vieti di dilapidare i soldi pubblici; magari ci sarebbe da chiamare in causa i supervisori del Ministero del Tesoro che – come minimo – non hanno avuto un minimo di oculatezza nella trattativa con questi signori top manager, ma si sa “la colpa morì fanciulla”.
Tutti, o quasi, si stanno riempiendo la bocca con la parola “privatizzazione”, ma in questo caso lo Stato sta liberandosi di un peso e – sia chiaro – che coloro che prendono in mano questa compagnia aerea, a meno di grosse modifiche strutturali, si ritrovano un bel bubbone.
Con la spocchia tipica degli ex ricchi, abbiamo subito cominciato a discettare sui futuri alleati di Alitalia: li preferiamo “italiani”, li vorremmo anche ricchi e, come se non bastasse, preferiremmo una struttura che già facesse parte del mondo aeronautico: come se fosse facile trovare uno che risponda a tutti questi requisiti!!
È stato subito dichiarato che la diminuzione della quota statale dal capitale della compagnia aerea, non avrà – almeno per il momento – ripercussioni sui vertici della società, anche se molti ministri ed esponenti politici puntano il dito sull’operato dell’attuale governance: “dobbiamo chiedere un risarcimento danni a Cimoli”, ha tuonato Pecoraro Scanio.
Consiglio subito i miei lettori di non preoccuparsi per il futuro dell’attuale Presidente di Alitalia, perché – come tutti i furbi – è in una botte di ferro: da poco ha avuto un aumento di stipendio che lo porta a livello di 190.000 euro mensili (quasi quattrocento milioni del vecchio conio) e, qualora le cose andassero in un certo modo ed il Consiglio di Amministrazione lo costringesse a dimettersi, se ne andrebbe insieme ad una “buona uscita” di 8 milioni di euro (quasi 16 miliardi di lire), da notare che lo stesso Cimoli era stato “strappato” alle Ferrovie nel 2004 e, in tale operazione aveva ricevuto un’altra “buona uscita” di 6 milioni e 700 mila euro.
Amici carissimi, questi sono soldi veri e non discorsi! Pensate che quando venne portato a galla lo “scandalo” di queste cifre corrisposte ai manager pubblici, dal governo venne risposto che “se volevamo i migliori dirigenti, bisognava pagarli”; ed infatti li abbiamo pagati, ma non mi sembra che abbiamo preso i migliori, perché il personaggio in questione – Cimoli – è venuto via dalla Ferrovie dopo avere fatto danni ed è approdato in Alitalia per combinare almeno altrettanti danni. Se questi sono i migliori, forse converrebbe cambiare parametro!!
Ma a dilapidare i nostri soldi, il prode Cimoli non è solo, bensì in degna compagnia: Elio Catania, assunto nel 2004 per risanare le Ferrovie, non solo non c’è riuscito, facendo lievitare il deficit fino a 1.6 miliardi di euro, ma ha aggravato il debito dell’azienda da lui diretta con una buona uscita di circa 5 milioni di euro (dieci miliardi o giù di lì).
Notare che queste cifre – sia per gli stipendi che per le liquidazioni – sono da un minimo di tre volte ad un massimo di sei, rispetto ai concorrenti europei di Compagnie Aeree e di Ferrovie.
Sembra che la Procura della Repubblica di Roma abbia aperto un fascicolo su queste retribuzioni “vergognose”, ma l’incartamento non ha una “ipotesi di reato”, in quanto non c’è legge che vieti di dilapidare i soldi pubblici; magari ci sarebbe da chiamare in causa i supervisori del Ministero del Tesoro che – come minimo – non hanno avuto un minimo di oculatezza nella trattativa con questi signori top manager, ma si sa “la colpa morì fanciulla”.
giovedì, novembre 30, 2006
TUTTI GLI UOMINI DEL PRESIDENTE
È il titolo di uno splendido film diretto nel 1976 da Alan J. Pakula e interpretato da Robert Redford e Dustin Hoffman, che narra la vicenda del Watergate, lo scandalo che costrinse il Presidente Nixon a dimettersi.
Chi ha visto il film ricorderà che tutta l’operazione è messa in piedi da due giornalisti del Washington Post, Carl Bernstein e Bob Woodward, autori del libro da cui è tratto il film e che valse a entrambi il Pulitzer; i due cronisti ricevono una soffiata da un personaggio all’interno della Casa Bianca (lo chiamano “Gola Profonda”) che svela loro il contenuto dello scandalo (le microspie messe nel quartier generale dei democratico) e dà a loro alcune indicazioni per risalire alle testimonianza indispensabili per suffragare la notizia e quindi poter pubblicare l’articolo.
Infatti, il Direttore del Washington Post, messo a conoscenza dello scoop che gli viene proposto, chiede ai due giornalisti “due conferme”, cioè due fonti diverse che possano suffragare quanto detto dall’anonimo personaggio; senza questa duplice conferma il noto quotidiano non pubblicherà proprio niente, ed infatti tutto il film ruota attorno alle ricerche che i due cronisti mettono in piedi per riuscire a trovare questa duplice conferma, unica circostanza che può indurre il direttore – fra l’altro avversario politico di Nixon – a pubblicare la storia.
Perchè vi ricordo la vicenda di questo film che è senz’altro la storia di uno scoop? Perché in questi ultimi giorni abbiamo vissuto uno strano caso: alludo al DVD di Deaglio “Uccidete la democrazia”, nel quale si ipotizza che attraverso un software fantasma, i voti bianchi e nulli, durante il transito dal Ministero dell’Interno, si siano trasformati” in voti per Forza Italia.
Ovviamente di prove neppure l’ombra; ma dirò di più: in questo caso non c’è stata neppure una “gola profonda”; si tratta soltanto di ipotesi che il barbuto giornalista – al momento Direttore del “Diario”, un giornale di nicchia – porta avanti senza la minima conferma.
Ma attenzione, perché fino a questo momento siamo “quasi” nel lecito, in quanto si può ipotizzare che Deaglio abbia tentato di “portare l’acqua al proprio mulino”, nel senso di costruire uno scoop che l’avrebbe portato alla notorietà; chi invece non ha alcuna scusante è la RAI, segnatamente il Direttore del TG1, Riotta, che ha ingoiato l’esca insieme a tutto l’amo, cioè l’ha messa in onda.
Come era facile prevedere si è scatenato un enorme putiferio e la Magistratura è stata costretta a intervenire: sono bastati due interrogatori (uno al funzionario del Ministero dell’Interno e l’altro a Deaglio) per smontare tutta l’operazione ed anzi a inquisire il giornalista per procurato allarme.
Cosa è stato a smontare il tutto? Semplice, i voti delle elezioni non passano attraverso nessuna forma computerizzata se non per essere “copiati”, ma vengono controllati e sommati rigorosamente “a mano”, quindi non c’è alcuna possibilità che l’ipotesi di Deaglio si sia potuta verificare.
Quindi, se l’autore del documentario si fosse premurato di chiedere al funzionario del Ministero dell’Interno come funzionava la sommatoria dei voti, avrebbe compreso subito che la sua ipotesi non poteva reggere.
E Riotta? Lui – a mio avviso – è più colpevole di Deaglio, in quanto non ha compiuto neppure i più elementari controlli prima di mandare in onda il documentario inquisito; eppure il bravo direttore del TG1 proviene dagli U.S.A., dove per una cosa del genere si viene licenziati in tronco; ma appena arrivato in Italia ha capito che qui è tutta un’altra cosa…..
I “soliti” che si pronunciano su tutto e tutti e che meno capiscono e più parlano (in rigoroso ordine alfabetico: Bertinotti, Diliberto, Di Pietro, Vita e Serventi Longhi) “hanno difeso il diritto alla critica e quindi il diritto a fare inchieste scomode”: ma che c’azzecca, avrebbe detto il Tonino Di Pietro di una volta!! Questa non è critica, ma inchiesta e quest’ultima è stata fatta contro ogni principio deontologico del giornalismo.
Se poi vogliamo scherzarci sopra, va tutto bene, ma guardate che questa vicenda ci mostra uno spaccato del nostro giornalismo che definire “inquietante” è il minimo: qualunque “pennivendolo” può costruire una balla clamorosa su chiunque e se il direttore la pubblica, pur in assenza del minimo di controllo sulle fonti, ma in ossequio alla “libertà di stampa”, son dolori!!.
Chi ha visto il film ricorderà che tutta l’operazione è messa in piedi da due giornalisti del Washington Post, Carl Bernstein e Bob Woodward, autori del libro da cui è tratto il film e che valse a entrambi il Pulitzer; i due cronisti ricevono una soffiata da un personaggio all’interno della Casa Bianca (lo chiamano “Gola Profonda”) che svela loro il contenuto dello scandalo (le microspie messe nel quartier generale dei democratico) e dà a loro alcune indicazioni per risalire alle testimonianza indispensabili per suffragare la notizia e quindi poter pubblicare l’articolo.
Infatti, il Direttore del Washington Post, messo a conoscenza dello scoop che gli viene proposto, chiede ai due giornalisti “due conferme”, cioè due fonti diverse che possano suffragare quanto detto dall’anonimo personaggio; senza questa duplice conferma il noto quotidiano non pubblicherà proprio niente, ed infatti tutto il film ruota attorno alle ricerche che i due cronisti mettono in piedi per riuscire a trovare questa duplice conferma, unica circostanza che può indurre il direttore – fra l’altro avversario politico di Nixon – a pubblicare la storia.
Perchè vi ricordo la vicenda di questo film che è senz’altro la storia di uno scoop? Perché in questi ultimi giorni abbiamo vissuto uno strano caso: alludo al DVD di Deaglio “Uccidete la democrazia”, nel quale si ipotizza che attraverso un software fantasma, i voti bianchi e nulli, durante il transito dal Ministero dell’Interno, si siano trasformati” in voti per Forza Italia.
Ovviamente di prove neppure l’ombra; ma dirò di più: in questo caso non c’è stata neppure una “gola profonda”; si tratta soltanto di ipotesi che il barbuto giornalista – al momento Direttore del “Diario”, un giornale di nicchia – porta avanti senza la minima conferma.
Ma attenzione, perché fino a questo momento siamo “quasi” nel lecito, in quanto si può ipotizzare che Deaglio abbia tentato di “portare l’acqua al proprio mulino”, nel senso di costruire uno scoop che l’avrebbe portato alla notorietà; chi invece non ha alcuna scusante è la RAI, segnatamente il Direttore del TG1, Riotta, che ha ingoiato l’esca insieme a tutto l’amo, cioè l’ha messa in onda.
Come era facile prevedere si è scatenato un enorme putiferio e la Magistratura è stata costretta a intervenire: sono bastati due interrogatori (uno al funzionario del Ministero dell’Interno e l’altro a Deaglio) per smontare tutta l’operazione ed anzi a inquisire il giornalista per procurato allarme.
Cosa è stato a smontare il tutto? Semplice, i voti delle elezioni non passano attraverso nessuna forma computerizzata se non per essere “copiati”, ma vengono controllati e sommati rigorosamente “a mano”, quindi non c’è alcuna possibilità che l’ipotesi di Deaglio si sia potuta verificare.
Quindi, se l’autore del documentario si fosse premurato di chiedere al funzionario del Ministero dell’Interno come funzionava la sommatoria dei voti, avrebbe compreso subito che la sua ipotesi non poteva reggere.
E Riotta? Lui – a mio avviso – è più colpevole di Deaglio, in quanto non ha compiuto neppure i più elementari controlli prima di mandare in onda il documentario inquisito; eppure il bravo direttore del TG1 proviene dagli U.S.A., dove per una cosa del genere si viene licenziati in tronco; ma appena arrivato in Italia ha capito che qui è tutta un’altra cosa…..
I “soliti” che si pronunciano su tutto e tutti e che meno capiscono e più parlano (in rigoroso ordine alfabetico: Bertinotti, Diliberto, Di Pietro, Vita e Serventi Longhi) “hanno difeso il diritto alla critica e quindi il diritto a fare inchieste scomode”: ma che c’azzecca, avrebbe detto il Tonino Di Pietro di una volta!! Questa non è critica, ma inchiesta e quest’ultima è stata fatta contro ogni principio deontologico del giornalismo.
Se poi vogliamo scherzarci sopra, va tutto bene, ma guardate che questa vicenda ci mostra uno spaccato del nostro giornalismo che definire “inquietante” è il minimo: qualunque “pennivendolo” può costruire una balla clamorosa su chiunque e se il direttore la pubblica, pur in assenza del minimo di controllo sulle fonti, ma in ossequio alla “libertà di stampa”, son dolori!!.
martedì, novembre 28, 2006
DIO MIO QUANTO SIAMO PEGGIORATI !!
Lo dico sempre che il mondo sta peggiorando a vista d’occhio; lo dico sempre che la gente sta sempre più incattivendosi e che per il vile denaro farebbe carte false e venderebbe mamma e babbo insieme. A cosa mi riferisco? Al modo in cui si comportano i media di fronte a coloro che hanno la morte negli occhi.
Ed allora facciamo il fatidico passo indietro: siamo nel 1984 ed il segretario del P.C.I., Enrico Berlinguer, si abbatteva sul palco durante un comizio a Verona (se non ricordo male) colpito da un ictus devastante che di lì a poco lo avrebbe portato alla morte: ebbene, nessuna televisione, benché l’uomo ed il luogo fossero pubblici, trasmise le immagini del tragico evento con la motivazione che a quell’epoca si riteneva, o meglio quella era la sensibilità di allora, che il momento della morte biologica (diverso è il discorso per la morte violenta) sia quanto di più intimo e privato un essere umano abbia e che sarebbe osceno profanarlo con uno sguardo di curiosità come è quello che si appunta sui mass media.
Venti anni dopo, cioè nel 2004, il calciatore ungherese Feher si accascia sul campo di gioco colpito da un aneurisma, mentre le televisioni di tutto il mondo si accanivano su queste immagini; altrettanto accanimento per la morte dell’allenatore Scoglio in occasione di una diretta televisiva: venti anni e quanta acqua è passata sotto i ponti; si sono rotti tutti gli equilibri che reggevano la convivenza civile e non si guarda più in faccia a nessuno pur di far aumentare il dannatissimo audience.
Nel caso accaduto in questi giorni a Silvio Berlusconi, si sono avute contrapposizioni abbastanza nette di comportamento: Mediaset non ha mandato le immagini in cui si vede il disfacimento dell’uomo che muore o crede di stare per morire; Sky invece ce le ha propinate in tutte le salse per l’intera giornata, mentre della RAI non ho contezza, ma credo che qualcosa abbia messo in onda; non so se il diverso atteggiamento discenda da posizioni politiche, ma non esito a dichiararmi dalla parte di Mediaset che ha avuto rispetto per l’essere che “poteva morire”, così come avvenne per Berlinguer, mentre coloro che hanno indugiato sul volto smarrito e distrutto hanno compiuto nient’altro che opera di sciacallaggio.
Eppure adesso abbiamo anche l’Autority per la privacy che dovrebbe salvaguardare questi aspetti; sentite come risponde Paissan, membro dell’autority: “Quelle immagini potevano essere trasmesse perché Berlusconi è un uomo politico e la manifestazione era pubblica”. Se uno avesse voglia di replicare a simili scempiaggini, potrebbe far notare a Paissan che anche Berlinguer era un uomo politico ed anche il luogo era pubblico in quanto si stava tenendo un comizio, ma non credo che capirebbe, quindi è meglio non replicare.
Sapete quale è stata la dichiarazione che più mi ha convinto? Quella di Mario Giordano, direttore del più scalcinato TG delle varie televisioni (quello di Italia 1) che ha detto: “Quando un uomo non ha più il controllo di se, non si mandano in onda le immagini; per rispetto”. Bravo Giordano!!
Vedete che l’assunto iniziale – Dio mio quanto siamo peggiorati – è giusto e sacrosanto; e allora, coloro che operano o hanno operato nel campo dell’educazione, debbono sentire questa affermazione come un macigno che viene calata sulla loro testa (tra questi ci sono anch’io) e cercare di porvi rimedio in qualche modo.
Ed allora facciamo il fatidico passo indietro: siamo nel 1984 ed il segretario del P.C.I., Enrico Berlinguer, si abbatteva sul palco durante un comizio a Verona (se non ricordo male) colpito da un ictus devastante che di lì a poco lo avrebbe portato alla morte: ebbene, nessuna televisione, benché l’uomo ed il luogo fossero pubblici, trasmise le immagini del tragico evento con la motivazione che a quell’epoca si riteneva, o meglio quella era la sensibilità di allora, che il momento della morte biologica (diverso è il discorso per la morte violenta) sia quanto di più intimo e privato un essere umano abbia e che sarebbe osceno profanarlo con uno sguardo di curiosità come è quello che si appunta sui mass media.
Venti anni dopo, cioè nel 2004, il calciatore ungherese Feher si accascia sul campo di gioco colpito da un aneurisma, mentre le televisioni di tutto il mondo si accanivano su queste immagini; altrettanto accanimento per la morte dell’allenatore Scoglio in occasione di una diretta televisiva: venti anni e quanta acqua è passata sotto i ponti; si sono rotti tutti gli equilibri che reggevano la convivenza civile e non si guarda più in faccia a nessuno pur di far aumentare il dannatissimo audience.
Nel caso accaduto in questi giorni a Silvio Berlusconi, si sono avute contrapposizioni abbastanza nette di comportamento: Mediaset non ha mandato le immagini in cui si vede il disfacimento dell’uomo che muore o crede di stare per morire; Sky invece ce le ha propinate in tutte le salse per l’intera giornata, mentre della RAI non ho contezza, ma credo che qualcosa abbia messo in onda; non so se il diverso atteggiamento discenda da posizioni politiche, ma non esito a dichiararmi dalla parte di Mediaset che ha avuto rispetto per l’essere che “poteva morire”, così come avvenne per Berlinguer, mentre coloro che hanno indugiato sul volto smarrito e distrutto hanno compiuto nient’altro che opera di sciacallaggio.
Eppure adesso abbiamo anche l’Autority per la privacy che dovrebbe salvaguardare questi aspetti; sentite come risponde Paissan, membro dell’autority: “Quelle immagini potevano essere trasmesse perché Berlusconi è un uomo politico e la manifestazione era pubblica”. Se uno avesse voglia di replicare a simili scempiaggini, potrebbe far notare a Paissan che anche Berlinguer era un uomo politico ed anche il luogo era pubblico in quanto si stava tenendo un comizio, ma non credo che capirebbe, quindi è meglio non replicare.
Sapete quale è stata la dichiarazione che più mi ha convinto? Quella di Mario Giordano, direttore del più scalcinato TG delle varie televisioni (quello di Italia 1) che ha detto: “Quando un uomo non ha più il controllo di se, non si mandano in onda le immagini; per rispetto”. Bravo Giordano!!
Vedete che l’assunto iniziale – Dio mio quanto siamo peggiorati – è giusto e sacrosanto; e allora, coloro che operano o hanno operato nel campo dell’educazione, debbono sentire questa affermazione come un macigno che viene calata sulla loro testa (tra questi ci sono anch’io) e cercare di porvi rimedio in qualche modo.
domenica, novembre 26, 2006
LA CERTEZZA DELLA PENA
Cerchiamo di dare un significato concreto a questo modo di dire, utilizzando – in forma strumentale – un fatto realmente accaduto e del quale sono venuto a conoscenza attraverso la stampa.
Cominciamo dalla vicenda: siamo in Toscana e precisamente a Grosseto; una donna di 29 anni – al termine di una gravidanza tenuta nascosta a tutti, anche al marito – uccide la neonata poco dopo il parto e nasconde il corpicino nella cesta per i panni sporchi, recandosi subito dopo all’Ospedale in preda ad una violenta emorragia che viene motivata come la conseguenza di un aborto subito in Romania; il marito torna a casa e, trovato il neonato, lo nasconde ulteriormente in una stufa, dove lo trovano i Carabinieri, allertati dall’Ospedale.
Vediamo adesso la conclusione giudiziaria: la donna viene rinviata a giudizio con l’accusa di omicidio volontario aggravato, reato che il giudice decide di derubricare in infanticidio, per il quale la pena prevista dal codice è di 12 anni; se a questo ci togliamo il canonico “terzo” (4 anni) che è lo sconto previsto per chi accetta il rito abbreviato, nonché altri 4 anni per le attenuanti generiche ed infine i tre anni previsti per l’applicazione dell’indulto, resta da scontare un misero anno di carcere per un reato che chiamarlo “efferato” è dire poco.
E adesso passiamo al marito: processato per maltrattamenti in famiglia e occultamento di cadavere, è stato condannato a 2 anni e 4 mesi di carcere, pena interamente condonata per effetto del già citato indulto: in conclusione, è già libero come un uccellino.
Torniamo adesso al concetto di “certezza della pena” e vediamone i risvolti: da un punto di vista personale, che c’importa a quanto viene condannata una donna e il di lei marito entrambi da noi non conosciuti? E allora questa “certezza della pena” per chi è, chi se ne avvale, chi ne ha bisogno?
Nel primo trattato sulle pene e i delitti del Beccarla (siamo nel 1800), si legge che la pena comminata al reo di un delitto deve essere più alta quando il delitto è più efferato: per quale motivo? Perché, sostiene il celebre giurista torinese, la società tutta subisce una sorta di lesione ogniqualvolta viene commesso un delitto e tale lesione è più profonda quanto il delitto è più grave; la pena che viene comminata al reo, serve a lenire – almeno in parte – questa specie di dolore diffuso nella società per l’accaduto violento.
Pensiamo adesso a quella parte di “società” che – come un anello concentrico - è più vicina al luogo in cui è stato commesso il reato e, forse ne conosce i protagonisti, addirittura, in qualche caso, ha legami di parentela con loro; ebbene per questa porzione di umanità, la lesione è ancora più marcata ed il bisogno di giustizia è ancora più specifico e, se questo non avviene può dare luogo a insensate manifestazioni di ritorsione verso il colpevole (vero o presunto) con tentativi di “farsi giustizia da soli”.
Ora io dico – senza voler insegnare niente a nessuno – a quei magistrati che amministrano giustizia “in nome del popolo italiano”, di tenere ben presente che se la società non riceve “giustizia”, prima o poi se ne impadronisce da sola ed allora siamo in presenza di un nuovo reato che va ad assommarsi al precedente, realizzando una sorta di “catena” che poi è ben difficile spezzare.
Cominciamo dalla vicenda: siamo in Toscana e precisamente a Grosseto; una donna di 29 anni – al termine di una gravidanza tenuta nascosta a tutti, anche al marito – uccide la neonata poco dopo il parto e nasconde il corpicino nella cesta per i panni sporchi, recandosi subito dopo all’Ospedale in preda ad una violenta emorragia che viene motivata come la conseguenza di un aborto subito in Romania; il marito torna a casa e, trovato il neonato, lo nasconde ulteriormente in una stufa, dove lo trovano i Carabinieri, allertati dall’Ospedale.
Vediamo adesso la conclusione giudiziaria: la donna viene rinviata a giudizio con l’accusa di omicidio volontario aggravato, reato che il giudice decide di derubricare in infanticidio, per il quale la pena prevista dal codice è di 12 anni; se a questo ci togliamo il canonico “terzo” (4 anni) che è lo sconto previsto per chi accetta il rito abbreviato, nonché altri 4 anni per le attenuanti generiche ed infine i tre anni previsti per l’applicazione dell’indulto, resta da scontare un misero anno di carcere per un reato che chiamarlo “efferato” è dire poco.
E adesso passiamo al marito: processato per maltrattamenti in famiglia e occultamento di cadavere, è stato condannato a 2 anni e 4 mesi di carcere, pena interamente condonata per effetto del già citato indulto: in conclusione, è già libero come un uccellino.
Torniamo adesso al concetto di “certezza della pena” e vediamone i risvolti: da un punto di vista personale, che c’importa a quanto viene condannata una donna e il di lei marito entrambi da noi non conosciuti? E allora questa “certezza della pena” per chi è, chi se ne avvale, chi ne ha bisogno?
Nel primo trattato sulle pene e i delitti del Beccarla (siamo nel 1800), si legge che la pena comminata al reo di un delitto deve essere più alta quando il delitto è più efferato: per quale motivo? Perché, sostiene il celebre giurista torinese, la società tutta subisce una sorta di lesione ogniqualvolta viene commesso un delitto e tale lesione è più profonda quanto il delitto è più grave; la pena che viene comminata al reo, serve a lenire – almeno in parte – questa specie di dolore diffuso nella società per l’accaduto violento.
Pensiamo adesso a quella parte di “società” che – come un anello concentrico - è più vicina al luogo in cui è stato commesso il reato e, forse ne conosce i protagonisti, addirittura, in qualche caso, ha legami di parentela con loro; ebbene per questa porzione di umanità, la lesione è ancora più marcata ed il bisogno di giustizia è ancora più specifico e, se questo non avviene può dare luogo a insensate manifestazioni di ritorsione verso il colpevole (vero o presunto) con tentativi di “farsi giustizia da soli”.
Ora io dico – senza voler insegnare niente a nessuno – a quei magistrati che amministrano giustizia “in nome del popolo italiano”, di tenere ben presente che se la società non riceve “giustizia”, prima o poi se ne impadronisce da sola ed allora siamo in presenza di un nuovo reato che va ad assommarsi al precedente, realizzando una sorta di “catena” che poi è ben difficile spezzare.