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sabato, maggio 05, 2007

LA CONFERENZA DI SHARM 

Nella turistica località egiziana di Sharm-El.Sheikh, un po’ la “Rimini del Sinai”, si sono riuniti tanti paesi, più o meno interessati, per discutere della crisi irachena e per cercare una qualche soluzione all’intero problema del medioriente; non vi elenco tutte le nazioni partecipanti altrimenti si riempie la pagina solo di questo, mi limito a citare che erano presenti tutti i paesi confinanti con l’Iraq e tutte le cosiddette “grandi potenze”.

Dai comunicati ufficiali non mi sembra che si possa gridare al miracolo e, del resto, da un’assemblea così pletorica era difficile attendersi qualcosa di materialmente positivo: ho colto solo un punto che mi appare come realistico e cioè l’abbattimento del debito dell’Iraq verso l’estero per circa trenta miliardi di dollari: della serie, quando c’è da dare soldi a pioggia, l’occidente è bravissimo (tanto sa che in buona parte gli ritornano), quando invece c’è da concludere qualcosa di più mirato, allora la politica dei veti incrociati la fa da padrona.

In questa occasione non mi resta che ripetere quanto ho già avuto modo di scrivere tempo addietro: finché l’occidente, il ricco e “civilissimo” occidente non la smetterà di andare in giro per il mondo con lo smodato desiderio – oltre che di depredarlo – di esportare i nostri modi di vita, i nostri stili e le nostre religioni, i nostri modi di governare e le nostre stupidissime (per loro) elezioni, non ci potrà essere altro che grandi frizioni con gli altri popoli che, se vanno a leggere nei loro libri di storia, scoprono di essere stati civili molto prima dei vari americani, inglesi, francesi e tedeschi (gli italiani li ho addirittura tolti dalla corsa).

Allora come fare? Anche questo l’ho già detto!! Basterebbe smettere con le rapine e andare in quei paesi solo se ci chiamano e fare solo quello per cui siamo stati chiamati; appena fatto, ritornare a casa e amici come prima!!

Mi viene da pensare che se l’opulento occidente si fosse sempre (almeno da dopo la prima guerra mondiale) comportato così, il problema degli extra comunitari che arrivano a frotte, sarebbe di ben altre dimensioni, perché non si creda che quei giovani di colore siano felici di lasciare il loro paese e venire a lavare i vetri delle nostre auto, prendendosi gli accidenti e le male parole di tutti noi.

Tornando alla Conferenza di Sharm, l’unico argomento che sembra interessare i media è lo “storico” incontro U.S.A. – Iran, a 28 anni dalla crisi degli ostaggi nell’Ambasciata di Teheran; ebbene, l’incontro c’è stato, ma non “da soli”; i due si sono salutati, hanno scambiato frasi di circostanza ma non hanno affrontato nessuno dei problemi che sono sul tappeto: i due, tanto per intendersi erano la Rice e il Ministro degli Esteri iraniano, Mottaki.

Mi piace concludere questo mio intervento, su un evento che meriterebbe ben altro spazio e spessore, con un fatterello riportato con grande enfasi dai media (a testimonianza che non accettiamo le differenze culturali): uno dei pranzi ai quali hanno partecipato gli invitato alla conferenza è stato allietato dalle note di Larissa Abramova, una ucraina che è tra le prime cinque violiniste al mondo; la grande artista indossava un abito che aveva varie “trasparenze”; ebbene, il sopra citato Mottaki, ha protestato vivacemente ed ha abbandonato la sala dove era stata apparecchiata la tavola che vedeva lui e la Rice sedere l’uno di fronte all’altra.

Questione di cultura o di politica??.

tanto per intendersi erano la Rice e il Ministro degli Esteri iraniano, ntato nessuno dei problemi che sono sul tappetoe concludere questo mio intervento su un evento che meriterebbe ben altro


giovedì, maggio 03, 2007

CONTINUIAMO A PARLARE DI LAVORO 

Pur essendo passati due giorni dalla canonica Festa del 1° Maggio, mi sembra giusto ed opportuno continuare a parlare di “lavoro” e, in particolare di due aspetti rilevanti di quel mondo: la prevenzione infortunistica e l’organizzazione del collocamento.

Per il primo di questi problemi, non c’è molto da dire: si tratta di una mera realtà speculativa che sta alla base di questi incidenti sul lavoro, in quanto gli investimenti aziendali nel campo della sicurezza sono sempre più scarsi, a beneficio dell’abbattimento del costo finale del prodotto, onde essere sempre più competitivi sul mercato.

In concreto, dobbiamo affermare con forza che ogni euro investito nella sicurezza, viene tolto dal capitolo del costo finale e quindi va a detrimento della concorrenzialità del prodotto; si dirà che gli infortuni sono diventati un numero insostenibile (4 lavoratori al giorno muoiono in questo modo), ma per continuare a vendere il prodotto a quella cifra il “sistema” non tollera alcun tipo di aumento di costo, neppure se questo incremento va ad incidere sulla sicurezza di un essere umano; e questo – amici miei – è un ulteriore indizio che ormai l’uomo non è più al centro della filiera produttiva e pertanto non si merita alcun aumento degli investimenti volti alla sua incolumità.

Il secondo aspetto – l’organizzazione del collocamento – è ancora più interessante da studiare: anzitutto è bene precisare che il vecchio “Ufficio di Collocamento” non esiste più nelle sua forse logora struttura; al suo posto esistono due realtà: le cosiddette agenzie interinali e quelle definite, con un termine che mi mette i brividi, “di somministrazione lavoro”.

Partiamo dalla prima di queste strutture e vediamo subito che già l’uso del termine interinale ci mette sulla buona strada per comprendere di cosa si tratta: interinale, infatti, significa “provvisorio” ed è proprio questo che avviene in simili agenzie, cioè si ricerca personale interessato (o costretto) a svolgere attività che hanno alla base la provvisorietà ma che – nei casi più fortunati – possono anche diventare definitive.

E per questo strutture non merita continuare: si tratta in soldoni, di agenzie che mettono in contatto lavoratori disoccupati con aziende alla ricerca di personale e questo incontro può anche durare un lasso di tempo limitato nel tempo, cioè essere “provvisorio”.

Della seconda realtà – Agenzia di somministrazione lavoro – il titolo dice già tutto quello che c’è da dire; a parte l’agghiacciante realtà che il lavoro, personificato in un essere umano, possa essere “somministrato” come si può fare con il caffè o con un piatto di spaghetti, mi lascia pensoso e, se permettete, anche un po’ schifato, perché anche in questo caso vedo che il lavoro – lungi dall’essere al centro della filiera produttiva – viene relegato ai margini e diventa una mera merce, come un cacciavite, un martello, strumenti che mi consentono di compiere una certa azione e di costruire alcune cose: e l’uomo? L’uomo s’arrangi e si immoli alla globalizzazione , quell’infame ricetta economica che ormai impera sovrana in tutto il mondo e che non ha alcuna regola; anzi, una ce l’ha ed è quella di massimizzare il profitto a qualunque costo, ed è quello che i più spregevoli individui stanno già facendo alacremente.


martedì, maggio 01, 2007

1° MAGGIO - FESTA DEL LAVORO 

Al di là delle feste, dei canti e dei cortei, anche quest’anno la Festa del Lavoro è consistita, principalmente, in una sfilata di sindacalisti e uomini politici tutti impegnati a santificare il lavoro ed a stigmatizzare le cosiddette “morti bianche”, cioè quelle relative ad incidenti sul lavoro (quest’ultima cosa discende dalla sacrosanta “mania” che sta pervadendo il Presidente della Repubblica, perché prima non ne parlava nessuno).

Negli anni passati non ho mai commentato l’evento; troppo facile sarebbe stato ripiegare il discorso sull’eccessiva agiografia della manifestazione; quest’anno invece ho deciso di segnalare agli amici lettori alcune considerazioni che mi sento di fare in proposito.

La prima è quella che in tutti i paesi nei quali prevale il concetto di “globalizzazione”, il lavoro è tenuto agli ultimi posti della scala sociale e viene considerato come una merce il cui costo “deve” necessariamente calare per poter far sì che il prodotto entri in competizione con tutti gli altri che vengono fabbricati utilizzando “schiavi” anziché lavoratori; da noi non siamo ancora arrivati ad usare quel termine, ma nella sostanza siamo già a quei livelli.

E mi spiego: tutta la voglia che hanno i nostri imprenditori di fare arrivare mano d’opera dai paesi nordafricani, nordeuropei e sudamericani, deriva – a mio modo di vedere – dalla volontà di immettere nella filiera produttiva, elementi a bassissimo costo che, pertanto, producano un calo vistoso del prezzo del manufatto.

Mi viene contrapposto che in Italia – come in altri paesi europei – alcuni lavori “non vogliono più essere fatti dagli indigeni e quindi si deve trovare la mano d’opera fuori dai confini”: mi sembra ovvio che è una grossa balla, in quanto quei lavori non vogliono essere fatti “a quei salari”, cioè a quei bassi costi orari che solo “disperati” extracomunitari sono disposti ad accettare.

Come sempre avviene nel mondo delle variazioni improvvise, la lotta non è tra classi dominanti e dominate, ma all’interno della singola classe (dominata) ci sono coloro che si fanno la guerra per essere ancora più dominati di altri: ed è così che i pomodori (tanto per citare un esempio facile, facile) vengono raccolti da nordafricani, ma solo perché a questi “disgraziati” viene concesso un salario a cottimo che porta diritto al concetto di sfruttamento della mano d’opera; i nostri – finché possono – scansano questi lavori, non per la loro specifica peculiarità, ma perché non consente loro di sbarcare il lunario.

Qui mi fermo nelle rivendicazioni e passo alle affermazioni di principio: le società (in testa quelle capitalistiche) hanno una sola chance, prima di soccombere ad una rivoluzione globale – nel senso che investe l’intero globo – ed è quella di riportare al centro della filiera produttiva “l’uomo” e non il prodotto ed agire nei sistemi produttivi – costi quel che costa – in modo che questa autentica rivoluzione avvenga.

Purtroppo questo concetto del primato dell’uomo sul prodotto l’ho sentito usare soltanto dal Papa e, comprenderete, che un laicaccio come me non può essere soddisfatto di ciò; quindi, meno cortei e meno autorità sui palchi a prendersi applausi di maniera, ma più idee autenticamente rivoluzionarie, di una rivoluzione pacifica come potrebbe essere quella che ho elencato sopra.

In alternativa a ciò esiste solo una cosa: una rivoluzione “non pacifica”, bensì violenta, assai violenta, nella quale morti e distruzioni si potrebbero sprecare.

Meditiamo, gente, meditiamo!!


lunedì, aprile 30, 2007

E ORA PARLIAMO DI TELECOM 

Sembra giunta a conclusione la vicenda Telecom e – dopo le noto peripezie con A.T.&T. – pare che la cordata congiunta di Telefonica (spagnola) e di banche italiane abbia trovato la strada per acquisire l’Azienda: vediamo cosa è successo.

Anzitutto è bene chiarire che nel nostro sistema capitalistico, comprare Telecom non significa acquisire delle azioni con sopra stampigliato il nome dell’Azienda, ma mettere in moto la scoperta delle “scatole cinesi” e cioè: acquisire la quota di Pirelli in Olimpia e quindi il 100% di quest’ultima (compresi i debiti per quasi 3 miliardi di euro) che controlla il 18% di Telecom; un ulteriore 5,6% viene conferito da Generali e Mediobanca e il tutto confluisce in una nuova società – battezzata “Telco” – che si trova così a possedere complessivamente il 23,6% di Telecom.

Vediamo allora come sono suddivise le quote di questa nuova nata, la Telco: tra i partecipanti a questa cordata troviamo Telefonica (la compagnia spagnola similare alla nostra Telecom) che rappresenterà il 42,3% del capitale, Generali il 28,1%, Mediobanca il 10,6%, Intesa-Sanpaolo il 10,6% e i Benetton l’8,4%.

Fin qui tutto chiaro? Allora andiamo avanti e notiamo subito che in questa cordata esiste un solo socio “industriale” (cioè pratico del mestiere) mentre il resto della truppa – che ha la maggioranza – è costituito da strutture finanziarie o da investitori privati come i Benetton.

Una prima notazione s’impone immediatamente: le strutture finanziarie che detengono quasi il 58% del capitale e che hanno perciò diritto di nominare i vertici aziendali, non hanno però alcuna dimestichezza con il mondo delle telecomunicazioni, dove invece sguazza felicemente il socio spagnolo che nel suo paese fa già questo mestiere: andranno d’accordo oppure ci sarà da litigare? Vedremo!!

Per esempio, a proposito di litigi, come prima operazione – dopo la nomina dei vertici – c’è da compilare il cosiddetto “piano aziendale” nel quale si deve presentare alla borsa, al governo ed ai sindacati, la strategia per uscire dal tunnel dei debiti e per riprendere a fare utili; ovviamente per fare questo bisogna intendersene di strategie aziendali e qui viene utile la presenza del socio spagnolo, che però non ha la maggioranza e quindi non può decidere da solo.

Ovviamente, la nuova nata è costretta ad accogliere subito una accesa polemica: il Presidente delle Generali, Bernheim, ha rivelato che il super ministro dell’economia, Padoa Schioppa, lo ha pregato di intervenire nell’operazione Telecom per “salvare l’italianità dell’azienda”; al che l’interpellato ha risposto con un garibaldino “obbedisco”, anche se ha sorriso sotto i baffi pensando: “ma guarda la stranezza della vita: io francese che difendo l’italianità”.

Così sembra che sia nata tutta l’operazione e – a ben pensarci – non si discosta molto dalle richieste di aiuto che il Governatore di Bankitalia, Fazio, lanciava per mantenere l’italianità dell’Ambroveneto; come sia andata a finire ce lo ricordiamo bene tutti, soprattutto il povero Fazio.

Sulle dichiarazioni di Bernheim si sprecano le polemiche – ovviamente di carattere politico - nelle quali prevalgono gli attacchi al governo, accusato di avere operato con logiche politiche (aggiungerei: partitiche), senza minimamente pensare all’interesse dei consumatori e neppure a quello degli investitori italiani (quelli che hanno in mano in 76,4% delle azioni, ed ai lavoratori dell’azienda: non ci dimentichiamo che questa nuova holding controllerà solo il 23,6% di Telecom.


domenica, aprile 29, 2007

LA FRANZONI E BERLUSCONI 

Mi domanderete subito: ma che c’entra? Come si possono accostare due figure così dissimili tra loro come Anna Maria Franzoni e Silvio Berlusconi? Infatti, a ben guardare non c’entrano niente, non si accostano, solo uno dalle idee bislacche come me poteva cercare un qualcosa che le legasse insieme e questo qualcosa – ripeto, lontano anni luce uno dall’altro – sono i casi giudiziari che hanno avuto eco sulla stampa di ieri.

E allora diciamo subito che entrambi i nostri “personaggi” sono passati attraverso i giudici ed hanno subito una sentenza: per la Franzoni è stata negativa, in quanto è stata confermata in Corte d’Assise d’Appello la sua colpevolezza (anche se tutta una serie di “scamotti giuridici” le hanno quasi dimezzata la pena); per il Cavaliere, invece è stata positiva perché è stato assolto all’annoso processo SME.

Cominciamo dalla Franzoni e, se non abbiamo spazio per il Berlusca, lo lasceremo fuori, tanto prima o poi avremo occasione di riparlarne: di processi ne ha ancora diversi aperti; anzitutto diciamo che la sentenza del processo di Cogne è stata pronunciata da quella che viene definita “Giuria Popolare” e quindi in camera di consiglio si sono ritirati in nove: il Presidente, i due Giudici a latere ed i sei giurati popolari scelti da un computer (due uomini e quattro donne dell’età compresa tra i 35 e i 65 anni).

E qui facciamo un primo step: io non sono mai stato chiamato a far parte di una Giuria Popolare (solo una volta per l’elezione di una Miss, ma quella è un’altra cosa!!) e quindi il discorso che segue è puramente induttivo; o meglio, prende lo spunto da quello che tante volte abbiamo visto al cinema, con le giurie – composte tutte da persone comuni e senza l’ausilio di nessun giudice - che si accapigliano per trovare un verdetto comune da portare in aula: già, ma questo ci viene mostrato dalla cinematografia anglosassone (americana e inglese) perché sono quelli i paesi che hanno inventato questa forma di giustizia, mentre né la nostra né quella di altre nazioni “latine” ha mai fatto un film su questo argomento; come mai, mi chiedo?

Dunque, torniamo alla nostra giuria: dei nove che entrano in camera di consiglio, un terzo è composto da “professionisti della giustizia”: do per scontato che la discussione venga pilotata da loro – e mi sembra abbastanza logico – e che il necessario riepilogo processuale venga fatto da uno dei giudici; se così non è e se qualcuno ha contezza che il rituale è diverso, me lo faccia sapere ed io ne prenderò atto.

Ora, la domanda che mi pongo e vi pongo è questa: come possono i sei “popolari” incidere sull’andamento di una discussione condotta da tre “professionisti”? A mio modo di vedere non possono e si limitano ad assentire su quello che i tre giudici propongono loro ed a votare con le idee che gli vengono propinate dai “professionisti”.

Ovvio che non tutti e sei cadranno succubi dei marpioni della giustizia, ma basta che ci caschi la maggioranza: a proposito, sembra che il verdetto sia stato emesso non all’unanimità ma a maggioranza (voci di corridoio).

E passiamo al verdetto: viene confermata la colpevolezza ma viene quasi dimezzata la pena; anche in questo caso vorrei paragonare il rito nostrale a quello anglosassone: in quella giustizia, la giuria decide soltanto se l’imputato/a è colpevole o innocente, poi spetterà al giudice quantificare la pena; da noi invece, la giuria popolare si addentra nei meandri della procedura penale per concedere o negare attenuanti generiche o specifiche; ed anche in questo caso non c’è dubbio che i “professionisti” hanno vita facile a far prevalere la loro idea nei confronti di una insegnante, un commerciante, un impiegato di banca, ecc.

Mi sembra logico, non trovate??!!

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