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sabato, gennaio 27, 2007

GLI ITALIANI SECONDO EURISPES 

“Delusi e insofferenti ma con la speranza che la voglia di cambiamento non rimanga insoddisfatta. Un popolo di indecisi che vive in bilico tra innovazione e conservazione, che si aggrappa a logiche individualistiche e si muove in un Paese neofeudale, che resiste tenacemente al cambiamento”.

È la sintesi fotografica del rapporto Eurispes presentato ieri l’altro a Roma e che ritrae una terra che sembra impaziente di lasciarsi alle spalle quell’atmosfera di declino che ne ha accompagnato i passi negli ultimi anni, ma deve fare i conti con vari problemi di carattere anche strutturale, ma soprattutto “con una classe dirigente ormai inadeguata; la via d’uscita: una rivoluzione culturale”.

Quanto affermato dal celebre Istituto nei nostri confronti non lascia scampo a nessun tipo di scusanti; basti dire che, mentre il 63% degli italiani si fida del Presidente della Repubblica, soltanto il 30% ha la stessa stima nei confronti del Governo e del Parlamento. E qui è indiscutibile la frattura che sembra allargarsi sempre di più tra il paese reale e la classe politica, di cui si è parlato tante volte.

La ricerca Eurispes entra anche più a fondo nei particolari, specie quelli economici, quando rileva che oltre il 50% delle famiglie italiane si va progressivamente impoverendo, mentre le imprese stanno conseguendo profitti consistenti. I ricercatori sono andati anche ad esaminare il sistema delle imprese rilevando che esse sono oltre 4 milioni, una ogni 14 abitanti, rendendo così l’Italia un caso unico in Europa.

Di questi rilievi e di tanti altri dei quali non posso parlare per ragioni di spazio, uno in particolare mi colpisce, ed è quando il presidente di Eurispes, Gian Maria Fara, afferma che il Paese sta andando verso una “deriva feudale”, usando così il termine “feudale” per la seconda volta come dispregiativo del periodo storico interessato e come cappa di piombo per l’attuale sistema delle nostre istituzioni.

Vorrei far notare che questo rapporto vede la luce quando l’attenzione di politici e famiglie è diretto alle nuove misure di liberalizzazione varate dal ministro Bersani: quelle rivolte a modificare gli istituto finanziari sono le solite ripetizioni di “acqua calda che si va a riscaldare”, tipo alcune innovazione sull’estinzione o il trasferimento dei mutui immobiliari; quello invece che riveste un qualche interesse è la novità dell’abolizione della clausola del “massimo scoperto” sui nostri conti correnti: questa è una novità così “nuova” che il Consiglio dei Ministri non l’ha inclusa nel decreto, ma ne farà un apposito disegno di legge, aspettando così le imboscate delle lobby bancarie.

Solo due parole per spiegare – a chi eventualmente non lo sa già – cosa è la clausola del massimo scoperto: si tratta di una commissione “ingiustificata” che le banche incassano (sono somme enormi) aggiungendo al tasso “debitore” una sorta di penale che si configura in una commissione sull’importo che è stato il picco di maggiore “rosso” tra i saldi; poiché tale commissione (mediamente l’1%) viene applicata ogni trimestre, ne consegue che si ha una specie di capitalizzazione del debito con incidenza di un rialzo che oscilla tra il 2 e il 4% sul tasso annuo applicato.

Questa nuova normativa è – a mio avviso – l’unica vera ed autentica “liberalizzazione” tra tante norme che sanno di propaganda e basta ed infatti il Governo non se l’è sentita di vararla direttamente ma è ricorso allo strumento del Disegno di Legge che presuppone un intervento, non solo deliberante, dell’intero Parlamento.

Staremo e vedere (disse quel cieco!!).


giovedì, gennaio 25, 2007

LIBERALIZZAZIONI 

Proprio oggi, mentre scrivo questo post, il Governo ha riunito il Consiglio dei Ministro per discutere due questioni: il rifinanziamento della missione dei nostri soldati in Afganistan e l’esame del pacchetto Bersani sulle liberalizzazioni.

Della prima questione vorrei solo ricordare che i miei lettori più fedeli forse avranno letto il mio post di oltre un anno fa nel quale chiamavo in causa anche un “terzo incomodo” e cioè i produttori di oppio che infatti, in questi ultimi mesi, hanno aumentato di molto l‘ingerenza nella vicenda; ma lasciamo fare, caso mai ne riparliamo.

Passiamo invece alle liberalizzazioni e diciamo subito che ne abbiamo bisogno, e tanto, specie dopo che l’annuale rapporto “Index of economyc freedom” elaborato dalla Heritage Foundation di Washoington insieme al Wall Street Journal, ci colloca ad un inglorioso sessantesimo posto, ben distanti dai campioni del liberismo mondiale (Hong Kong, Singapore, Australia, Inghilterra e Irlanda) ed invece vicinissimi a stati come la Namibia, il Madagascar o il Belize.

Ed ecco alcune notazioni fatte dall’istituto di ricerca nei nostri confronti: “La spesa pubblica e le aliquote fiscali raggiungono livelli straordinariamente elevati al fine di finanziare un pervasivo stato assistenziale”, oppure “il compito di garantire il rispetto delle normative pubbliche e delle sentenze giudiziarie viene ulteriormente ostacolato da un’amministrazione pubblica inefficiente”.

In queste prime due osservazioni, il rapporto statunitense punta il dito verso le enormi risorse che necessitano ad uno stato come il nostro proprio per la sua caratteristica di “assistenziale”; vediamo subito il significato di quest’ultimo termine: “relativo ad opere o ad attività di pubblica assistenza indirizzata verso chi ha bisogno”.

Quindi sembrerebbe che l’assistenza venga rivolta principalmente alla “macchina dello stato”, cioè a quella burocrazia (che non mi sembra “abbia bisogno”) che però vediamo nella seconda notazione, rappresentare una sorta di palla al piede anche della giustizia in quanto non in grado di gestire le sentenze con un minimo di efficienza.

Queste osservazioni dei paesi più liberisti nei nostri confronti non sono, per la verità, una novità degli ultimi anni, ma sono sempre state presentate alla nostra attenzione, senza peraltro che la stampa nazionale conferisse loro un qualche interesse; questa volta, con un esecutivo che ha tra i propri obiettivi, le liberalizzazioni ecco che i quotidiani danno una qualche visibilità alla ricerca.

Comunque sia, i tentativi fatti fino ad ora sono ben misera cosa: i farmaci da banco permessi anche nei supermercati, si sono rivelati – almeno per il momento – un flop clamoroso; l’altra operazione (quella con i taxisti) non ha dato benefici visibili in quanto la corporazione è fortissima e condiziona i Comuni, anche sotto l’aspetto partitico.

Il mondo delle imprese è alla finestra a vedere come andrà a finire questa vicenda e si dichiara interessato alle liberalizzazioni; mi sembrerebbe una vera stortura tale interesse, visto che il mondo capitalistico ha viaggiato fino ad ora sullo slogan: “intaschiamo gli utili e socializziamo le perdite” che è l’esatto opposto di qualsiasi concetto liberistico.

La classe politica attualmente al potere deve decidere se contentarsi del sessantesimo posto (ripeto: dietro la Namibia) oppure impostare un progetto collettivo, ampio ed articolato, che superi la logica dei veti incrociati; ne avrà la forza o continuerà a tirare a campare come hanno fatto tutti i governi del dopoguerra?


mercoledì, gennaio 24, 2007

CONCERTARE O CONTRATTARE ? 

Ho trovato una curiosa dichiarazione di Cofferati – Sindaco di Bologna – impegnato in una furibonda polemica con la CGIL sull’aumento della sovrattassa IRPEF: “sull’Irpef, lo ripeto, non si tratta, si può discutere e valutare, perché concertare è un conto, contrattare un altro”.

Allora io – poiché quei due termini ricorrono spesso – mi sono andato a consultare il “Devoto-Oli” ed ecco il risultato: per CONCERTARE s’intende “fissare, definire di comune accordo i particolari relativi alla pratica attuazione”; per CONTRATTARE invece si ha “discutere sul prezzo e sulle altre condizioni di acquisto o di vendita”.

Fin qui è tutto chiaro, è il seguito che non mi torna e vi spiego i miei dubbi, le mie perplessità: siamo in presenza di una delibera comunale che fissa una certa aliquota come addizionale all’IRPEF; i sindacati la ritengono un balzello troppo gravoso per i lavoratori e vanno in Comune a protestare; trovano il Sindaco Cofferati che li invita a “concertare”, cioè definire i particolari attuativi, ma il quid, cioè l’aliquota non è in discussione e allora cosa si può concertare, forse la data di scadenza della tassa oppure le modalità di pagamento, insomma queste appendici alla decisione di fondo; altra cosa sarebbe stata la “contrattazione”, in quanto le cose sarebbero andate grosso modo così: facciamo l’ipotesi che Cofferati voglia portare la sovrattassa dallo 0.3 allo 0,6%. è chiaro che si sarebbe comportato così: avrebbe informato i sindacati, i cittadini, insomma tutti gli interessati che l’aumento della aliquota sarebbe ammontato allo 0,8%; a questo punto sarebbe scattata la “contrattazione” e quindi le controparti avrebbero avanzato delle controproposte, tipo aumentare dallo 0,3 allo 0,5%; chiaro che tra lo 0,5 proposto dalle associazioni e lo 0,8 del Comune si sarebbe potuta trovare una cosiddetta via di mezzo – diciamo allo 0,65% - e l’intesa sarebbe stata siglata, con buona pace di tutti e con la convinzione di sindacati, associazioni di categoria, ecc, che la contrattazione aveva funzionato a dovere e che si era potuta registrare l’ennesima vittoria del proletariato.

Ricordo una frase del più grande sindacalista che l’Italia abbia avuto, Di Vittorio, il quale diceva ai suoi giovani collaboratori che “il sindacato riesce sempre a ottenere dal padrone tutto quello che il padrone era già disposto a dare” ed aggiungeva “bravo è quel sindacalista che riesce a capire il punto massimo al quale il padrone è disponibile ad arrivare”.

E la concertazione? Anche questo termine viene usato in tutti i modi possibili dalle maggiori autorità – senza far nomi, il Presidente della Repubblica – per auspicare che le maggiori riforme vengano fatte dopo una “seria concertazione”: che vuol dire? Che durante la discussione non si deve ridere?

A parte gli scherzi, c’è un governo che ha il pallino in mano e c’è una opposizione che vuole strapparglielo; come si può pensare che – salvo casi di inciuci poco edificanti – si possa trovare un accordo nel quale poi ognuno direbbe che è stato lui a vincere e l’altro a perdere?

Le regole delle democrazia sono chiare: quando comando io si fa come dico io e intanto tu prepari la riscossa, mettendomi il bastone tra i piedi a tutto spiano; alle prossime elezioni vediamo cosa sei riuscito a combinare; se la gente ti sarà favorevole e sarà contraria a me, vorrà dire che tu avrai vinto e farai come vuoi, altrimenti si continuerà con me che faccio quello che voglio. È un ragionamento un po’ contorto? Forse, ma è così che gira la ruota della vita; e poi voi siete bravi e mi capirete senz’altro!! Comunque, meditiamo, gente, meditiamo!

martedì, gennaio 23, 2007

CELLULARI ALLE ELEMENTARI 

Ricorderete che un po’ di tempo fa scoppiò lo scandalo dei cellulari usati dai ragazzi delle scuole per riprese sexy alle compagne, più o meno compiacenti.

Ebbene, adesso lo scandalo si è spostato addirittura alle elementari – età tra i sei e i dieci anni – dove una maestra ha scoperto un bambino che giocherellava con il suo cellulare (costa almeno tre volte del mio) dentro al quale c’era in bella vista una serie di foto e filmati pornografici, alcune fatte anche a compagne di classe.

Altro scandalo, altra sommossa del mondo della scuola che si è rivoltato contro quest’uso smodato della tecnologia; il logico provvedimento sarebbe stato quello di vietare l’uso del cellulare all’interno degli edifici scolastici – come del resto sta scritto nel mai applicato regolamento – ma la preside e gli insegnanti si sono dichiarati impotenti a mettere in piedi questa normativa a causa della levata di scudi dei genitori.

Volete qualche “giustificazione” addotta dalle madri (sono soprattutto loro, molto più dei padri) a difesa del cellulare? Eccole: “Quando vado a prenderlo a scuola può capitare di incontrare traffico o avere qualche ritardo; con il cellulare posso avvertirlo e assicurarmi che aspetti”. Ma signore, siamo alle elementari e si ha paura che il bambino se ne vada per conto suo? Ma fategli il sedere rosso di botte e vedrete che non ci riprova più ad andare a spasso per conto suo!!

Ancora motivazioni sull’acquisto dello strumento diabolico: “Un po’ perché lui (il bambino) ha insistito tanto per averlo e poi così mi sento più tranquilla”; attenzione signora, che ai figli si può – anzi si deve – dire anche di no, perché a dire sempre di si, la prossima volta gli chiederanno la pistola e anche con quella lei si sentirà più tranquilla?

L’uso smodato del telefonino in classe ha creato una vera psicosi nelle maestre che assistono quasi sempre impotenti a continue digitazioni del cellulare per la composizione di messaggini che magari sono diretti all’amico del banco accanto o all’amichetta della classe vicina.

E le maestre commentano che “è difficile assicurarsi che facciano quello che gli diciamo”: egregie signore o signorine maestre, ma sapete cosa significa questo sostantivo?

“Colui o colei che in virtù delle cognizioni ed esperienze acquisite, contribuisce in tutto o in parte all’altrui formazione”. Che ne dite? Cosa vi manca la cognizione o l’esperienza? Ed allora ditelo che non siete in grado di fare il vostro mestiere e la società cercherà soluzioni diverse.

Ed a Voi signori Presidi, se i genitori “pretendono” che i figli abbiano con loro il fidato cellulare, cacciate dalla scuola sia la mamma che il o la figlia, ricordando loro che siamo andati avanti benissimo anche quando non c’erano e che i ritardi per il traffico c’erano anche allora, ma i figli – almeno quelli educati a modo – non si muovevano dalla scuola e restavano ad aspettare il padre o la madre.

E non mi si parli di “nuovi pericoli” che adesso incombono sui bambini: sono gli stessi di sempre, con l’aggravante che l’uso smodato e non controllato di questi nuovi mezzi tecnici acuisce il pericolo in quanto lo produce e non contribuisce affatto a risolverlo.

Quindi, dopo avere invocato il pugno d’acciaio nelle scuole contro i telefonini, vi ripeto quanto dico solitamente: “meditiamo, gente, meditiamo!”.


domenica, gennaio 21, 2007

MANDATEMI IN ESILIO A PARIGI 

In questi giorni si legge sui giornali una cosa curiosa: “Per intervenuta prescrizione, Oreste Scalzone è libero e potrà tornare in Italia dopo il lungo esilio a Parigi”; Scalzone? Questo nome non mi è nuovo, ma non riesco a metterlo perfettamente a fuoco ed allora debbo documentarmi ed ecco il risultato.

Oreste Scalzone – classe 1947 – diventa, giovanissimo, protagonista del movimento studentesco; nel 1968, a 21 anni, è tra i protagonisti degli scontri a Valle Giulia, dove si combattono aspramente i militanti di estrema sinistra e la Polizia; trasferitosi a Milano, partecipa all’organizzazione dei “Comitati Comunisti”, emanazione di Potere Operaio, del quale era stato co-fondatore insieme a Franco Piperno e Toni Negri; contribuirà poi all’affermazione politica di “Autonomia Operaia”.

Viene arrestato nel 1979 con l’accusa di insurrezione armata contro i poteri dello Stato; scarcerato nel 1981 per decorrenza dei termini di carcerazione preventiva, si rifugia a Parigi (ecco l’esilio!!); nell’’83 arriva la condanna a 16 anni di carcere, poi ridotti a 9 nel 1987, ma Scalzone continua a vivere tranquillamente all’ombra della Tour Eiffel, sino ad imporsi come punto di riferimento dei rifugiati politici degli “anni di piombo”.

Adesso i giudici hanno accolto la richiesta presentata dal difensore di Scalzone e hanno dichiarato “l’estinzione dei reati contestati per intervenuta prescrizione”.

Confesso subito che non ho capito questa allocuzione adottata dalla magistratura per rimettere in libertà Scalzone, ma sono certo che dipende dalla mia ignoranza; però, voglio ripetere quello che ho detto tante volte in questi ed in altri miei scritti: la magistratura emette ogni sentenza “IN NOME DEL POPOLO ITALIANO” e quindi è tenuta a farsi almeno comprendere da questa entità astratta (per loro, ma concreta nella realtà) almeno nelle frasi che vengono adottate.

Ma lasciamo fare la forma ed andiamo avanti: poiché si parla di prescrizione, significa – a lume di naso - che qualcuno ha lasciato scadere dei termini e che pertanto tutto quanto costruito fino a quel momento è da buttare e, infatti, il condannato viene rimesso in libertà.

Allora, il “povero” Scalzone viene autorizzato a lasciare l’esilio parigino e rientrare in Italia – se lo vorrà – oppure andarsene da qualche altra parte; l’interessato ha già dichiarato: “farò il pendolare” e tutti i lavoratori che si alzano alle sei di mattina per recarsi in officina o in ufficio si sono sentiti ben rappresentati da un signore che in vita sua non ha mai fatto assolutamente niente e che adesso si accinge a concludere quest’ultima parte della sua vita (gliela auguro la più lunga possibile) facendo il “pendolare” tra Roma e Parigi.

Come mi sarebbe piaciuto fare altrettanto! Come mi piacerebbe aver fatto la sua stessa vita e continuare anche adesso! Forse potrei portargli la valigia, forse potrei occuparmi della “logistica”, cioè conoscere a menadito l’orario delle ferrovie e quello degli aerei per scegliere quale mezzo usare per ogni spostamento; insomma potrei rendermi utile in qualche modo.

Poi ci ripenso e capisco che non posso! Perché, mi chiederete? Ma perché io che sono quasi suo coetaneo, ho sempre lavorato nella mia vita e non posso smettere proprio adesso che sono in retta d’arrivo, così come LUI – che, ripeto, non ha mai fatto alcunché, salvo l’esiliato di professione – non può certo cominciare adesso a lavorare e…allora, signori miei non possiamo andare d’accordo, quindi lui faccia il pendolare ed io il lavoratore.

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