sabato, giugno 01, 2013
LA CHIESA ALLA RIBALTA
Mentre il Papa sta passando da un “successo”
all’altro (l’ultimo è stata la scelta di celebrare una messa domenicale in una
parrocchia periferica romana), i suoi “inferiori” non ne imbroccano una, ma
nella scarogna si stanno difendendo abbastanza bene.
L’ultimo “infortunio” è accaduto al funerale
di Don Andrea Gallo, il cosiddetto “prete di strada”, che torna nella Chiesa
del Carmine dalla quale uscì – fu detto all’epoca – per volere dell’allora
cardinale Giuseppe Siri.
A distanza di 40 anni da quella vicenda, è un
altro arcivescovo di Genova, il cardinale Angelo Bagnasco, tra l’altro presidente
della C.E.I., a ricordarlo in quella chiesa dove stava celebrando i suoi funerali,
dopo che seimila persone e tanti V.I.P. (o presunti tali) avevano seguito la bara
partita dalla comunità di San Benedetto al Porto.
C’erano tutti i veri amici di Don Gallo,
dagli operai ai portuali fino ai giocatori del Genoa (squadra del cuore del
sacerdote), ma anche politici, sindacalisti, artisti e ancora la “sua” gente:
gli “esclusi”, gli omosessuali, i transessuali, i poveri dei vicoli di Genova
(i carruggi), i disabili, gli immigrati, ma anche giovani dei Centri sociali,
dei “No Tav” e del “NO Dal Molin”, tutti con le bandiere rosse al vento, come rossa
era la sciarpa depositata sulla bara assieme al cappello nero che era diventato
un simbolo del “Gallo”.
In chiesa, durante la messa, parte anche la
contestazione al cardinale Bagnasco che celebra accanto a Don Ciotti, a sua
volta osannato dal presenti, e ad altri sacerdoti.
Proprio mentre cerca di smussare l’episodio
del suo predecessore, Bagnasco deve “subire” il canto di “Bella ciao” che si
propaga sotto la navata e l’omelia deve forzatamente interrompersi; riprenderà
solo dopo che la segretaria di Don Gallo – Lilli – striglierà vibratamente i
fedeli con queste parole: “Andrea amava e rispettava la sua Chiesa e i suo
vescovo”. La cerimonia può riprendere con una calma che si è quasi “abbattuta”
sulla gente”.
Ma arriva il momento ancora più intrigante e
che pone Bagnasco di fronte ad una nuova e difficile prova: quando si arriva al
punto in cui viene distribuita la comunione, c’è moltissima gente in attesa e in mezzo a tutta questa gente anche Vladimir
Luxuria e Regina Salariano, quest’ultima fondatrice del Movimento transgender
che ha detto di essersi sentita degna di condividere il pane alla mensa di Dio
per Don Gallo.
Quando Vladimir Luxuria si è trovata di fronte al cardinale Bagnasco
che consegnava l’osta, si sono guardati a lungo negli occhi – lui ha guardato lei
e lei ha guardato lui – e l’officiante le ha riconosciute, ma senza esitazione
ha detto loro “ecco il corpo di Cristo”,
dando loro la particola (e qui sono scattati i flash dei fotografi).
Da più parti si è detto che questo gesto poteva
essere l’inizio di un’apertura, con l’augurio che il lavoro che ha fatto Don
Gallo prosegua e che la messa – come lui diceva – non sia finita.
La Curia di Genova alla fine del rito ha fatto sapere
che la Chiesa
non prevede un divieto circa la comunione di un transgender, mentre continua il
divieto nei confronti delle coppie divorziate e risposate, perché in questo
caso è stato violato un sacramento.
Insomma, sarebbe bene che la “corte” del
Papa, pur nella logica autonomia, si allineasse all’operato del Pontefice ed
anzi, se possibile, rinforzasse le sue mosse con operazioni nello stesso verso.
giovedì, maggio 30, 2013
SI RIPARLA DEI SOLDI AI PARTITI
Evidentemente Letta non vuole perdere la
ruota di Matteo Renzi e, con un mezzo colpo di mano, annuncia (via twitter!!)
che nel corso del recente Consiglio dei Ministri, si è trovato un accordo per
porre mano ad una nuova normativa che regolamenti il finanziamento pubblico ai
partiti.
Prime reazioni: con il trasformismo tipico
dell’italiano, adesso tutti dicono: “noi l’avevamo chiesto da tempo”, mentre
nella realtà dei fatti, fino ad un paio di mesi fa, tra tutti i partiti
serpeggiava la paura per quanto cercavano di imporre i grillini: una
sostanziosa cura dimagrante per i partiti.
Ovviamente il più contrario era – e forse lo
è ancora – il PD, cioè il partito che vanta un apparato molto efficiente ma
altrettanto costoso; il Pdl aveva inserito il taglio totale nel programma di
governo in sede elettorale, ma non ne aveva fatto una questione prioritaria
come per l’I.M.U.
Il più veloce a cogliere l’umore della gente
– anche se non ha responsabilità di governo e quindi di gestione di bilancio –
era stato Renzi che aveva spiazzato il partito proponendo l’abolizione totale
del finanziamento pubblico, sostituendolo con spazi televisivi, abbassamento di
costi di spedizione e comunque di spese inerenti l’attività politica.
Letta a questo punto si è “scoperto” ed ha
annunciato la proposta dello stop ai soldi pubblici ai partiti; il consiglio
delle gente – o meglio, quello che si aspetta – è che cerchi anche di imprimere
una velocità derivante dalla quinta marcia che lui saprà innestare, sapendo che
senza un po’ di sfrontata spregiudicatezza (alla Renzi), senza quel coraggio e
quella decisione che certamente non gli mancano, si farà prendere l’idea da qualche altro che cercherà di farlo al
posto suo, ingraziandosi la gente; e poi, capisca che ormai ha lanciato il
sasso nello stagno non potrà tirare
indietro la mano, pena lo sputtanamento nei confronti dell’opinione pubblica,
ma anche degli avversari politici.
Ora dobbiamo attendere il disegno di legge
che in questi giorni arriverà in Consiglio dei Ministri; il lieve slittamento è
dovuto all’attesa della chiusura della procedura per deficit eccessivo, aperta
da Bruxelles e che dovrebbe essere chiusa proprio in quelli stessi giorni.
A quanto è dato sapere attraverso i
collaboratori del governo , il provvedimento in gestazione – firmato da
Nardella, uno stretto collaboratore di Renzi -
cancellerà la materiale dazione del denaro ma garantirà ai partiti
certezza di spazi e di luoghi fisici in cui fare politica.
Guardiamo con ottimismo alla mossa di Letta –
anche perché ha un mastino come Renzi che gli è alle calcagna – ma non
dimentichiamo che la “casta” è riuscita a superare altri scogli sulla materia;
occorre ricordare, per tutti, quando il buon Pannella ottenne oltre l’80% sul referendum
che aboliva il finanziamento pubblico ai partiti e si vedeva rientrare dalla
finestra quello che era uscito dalla porta: erano riusciti a fare una legge
quasi uguale, ma definivano gli esborsi dello Stato verso i partiti come
“rimborsi elettorali” e siccome in questo nostro ameno, ma disgraziato Paese,
le elezioni si succedono a ritmo indiavolato, le forze politiche ci hanno
addirittura guadagnato rispetto a quanto gli entrava nelle casse prima del
referendum.
Quindi, aspettiamo a cantare vittoria, visto
che la controparte è agguerrita ma soprattutto “vorace” e quindi ha sempre
bisogno di denaro; chiaro?!
martedì, maggio 28, 2013
UNA CONTRADDIZIONE
Ci viene detto in tutte le salse che il problema dei problemi è la
disoccupazione giovanile; ebbene, sembra che uno dei pochi comparti che stia
accogliendo i giovani sia quello agricolo, tant’è vero che sono già quasi
60/mila le aziende agricole gestite da under 30.
Ma vediamo qual è la situazione dei giovani rispetto all’agricoltura:
uno su tre confessa candidamente di non aver mai preso in mano una zappa, ma
ciononostante il lavoro dei campi affascina un numero sempre maggiore di studenti e giovani disoccupati tra i 16 e i
25 anni; ma forse il dato che colpisce maggiormente è che al 42% dei giovani
piacerebbe fare il contadino, se solo avesse il terreno.
Con questi dati e con la disoccupazione sempre in aumento, è per lo meno
contraddittorio dover constatare che la tendenza a sottovalutare il comparto
agricolo da parte dei nostri governanti, continua ancora adesso, dalla metà del
secolo scorso in cui era iniziata.
L’agricoltura sembra l’unico settore produttivo che non ha un seguito
mediatico, in quanto viene il più delle volte abbandonato a improvvisatori di
professione, quando addirittura non viene nemmeno considerato.
Avremmo invece più che mai bisogno di
sostenere la nostra agricoltura, nel suo eterogeneo insieme agro-silvo-pastorale,
che va dalle piccolissime alle grandi imprese e dai prodotti di nicchia a
quelli di largo consumo.
Specialmente adesso che si è scoperto
l’appeal che l’agricoltura emana verso la gioventù, sarebbe auspicabile ridarle
nuova energia con un progetto strategico nazionale condiviso; prima che sia
troppo tardi; non si può più mirare ai giorni nostri ad uno sviluppo
socio–economico senza assicurare alla gente che vi partecipa, una dignitosa
qualità della vita a cominciare dalla disponibilità del pane quotidiano e di
una univoca tutela agro-ambientale.
La crescente insufficienza delle produzioni
alimentari mondiali insieme al progressivo esaurimento delle superfici
coltivabili dell’intero pianeta, nonché al previsto incremento della domanda
dei prodotti agricoli (per l’aumento della popolazione e dei consumi
individuali) non rendono più possibile fare assegnamento sul mercato globale
considerandolo una inesauribile fonte di prodotti alimentari, con l’aggiunta
dei prezzi accessibili per tutti.
Ogni Paese lungimirante dovrebbe aiutare gli
agricoltori a trovare condizioni che consentano di coltivare i campi traendo da
questo un reddito sufficiente.
Se guardiamo al futuro e nella consapevolezza
dei gravi rischi ai quali sta andando incontro la nostra agricoltura – e quindi
l’intero comparto produttivo del Paese – bisogna far riemergere il senso di
responsabilità di tutti e stimolare il coraggio degli agricoltori, specialmente
dei più giovani, prima che possa considerarsi l’assurda e disastrosa idea che
l’agricoltura non sia un’attività indispensabile.
E invece, specie ora che si è scoperto come i
giovani amino il ritorno ai campi, bisognerebbe che la classe politica
dirigente guardasse il comparto agricolo con un occhio particolare, altrimenti
si creerebbe quella contraddizione di cui parlo nel titolo: i giovani amano la
campagna, la campagna ha forti possibilità di sviluppo occupazionale, ma la
classe dirigente non se ne accorge e rischia così di perdere l’occasione.
Ed a rimetterci sarebbero, ovviamente, i giovani!!
domenica, maggio 26, 2013
RICREARE IL LAVORO
Se fossi al posto di Letta tu cosa faresti
per ridare lavoro ai nostri disoccupati? In un recente convegno su lavoro,
legge Fornero e dignità dei lavoratori, quasi tutti gli intervenuti hanno
proposto ricette assai generiche.
Facciamo una premessa: pur in epoca di
spending review non è accettabile che un lavoratore venga pagato 3 euro l’ora
netti; e questo anche in Regioni civilissime e socialmente avanzate.
Sia chiaro che ricette miracolose non
esistono, ma prima di tutto andrebbe rispettata la dignità del lavoratore, il
che significa “giusto salario”, altrimenti poi non meravigliamoci per gli
scandalosi salari percepiti dai lavoratori del Bangladesh e zone viciniore.
Quindi, pur concordando il tutto con
l’Europa, dovremmo passare da una politica dei tagli ad una forte politica
industriale incentivata dallo Stato, che ci consenta di invertire la spirale
perversa in cui siamo caduti superando il patto di stabilità; e al tempo stesso
introdurre parametri più tolleranti.
In questo contesto, passare all’operatività,
con un nuovo patto tra le imprese e i sindacati che punti ad una maggiore
produttività. Rinunciando a qualche diritto acquisito, ma pretendendo di
condividere i maggiori guadagni che lì’Impresa raggiungerà per effetto di
questa novità.
Altro elemento da prendere in seria
considerazione è il pretendere che concetti quali aumento di produttività e
meritocrazia vengano introdotti anche nella Pubblica amministrazione che ha al
suo interno un potenziale “sotto utilizzo” che in questo momento di crisi non
ci possiamo permettere assolutamente.
Questi obiettivi potrebbero poi essere
sostenuti da un programma straordinario almeno triennale che preveda la
detassazione e decontribuizione per i “neo assunti” a prescindere dalla loro età.
Proviamo a mettere in campo una
considerazione: coniugare rispetto della dignità del lavoro e sviluppo
economico è possibile, come testimoniano alcune esperienze tedesche, quali
quelle alla Wolkswagen o, per restare in Italia, quelli sperimentati con successo
alla Nuovo Pignone di Firenze ed alla “Pont-tech” di Pontedera che hanno descritto
in un recente convegno la loro esperienza positiva in chiave di rispetto
massimo per il lavoratore.
Non dimentichiamoci che il lavoro è diventato
un valore solo con la Rivoluzione
Industriale”, sia per i liberali che per i marxisti; in
precedenza il lavoro non era un valore; c’è chi addirittura dubita che nelle
società preindustriali esistesse il concetto così come noi lo intendiamo
adesso, ma piuttosto esisteva il “mestiere” che è cosa ben diversa in quanto,
sia in epoca feudale che medioevale, era nobile chi non lavorava, mentre
l’artigiano e il contadino lavoravano solo per quanto gli bastava; gli altri
erano dei “miserabili” e vivevano – quando ci riuscivano – solo di carità
altrui.
Con la Rivoluzione industriale cambia anche il modo di
concepire “il lavoratore”; il signore, il maestro artigiano, il padrone della
bottega non considera i propri dipendenti una “merce” che si può vendere e
comprare; i rapporti sono talmente intrecciati che il valore economico delle
reciproche prestazioni ne rimane inglobato; oggi invece il lavoratore è una “persona”
come un’altra, tanto che gli viene riservato un trattamento assolutamente
“umano”, ma niente più.
Se vi sembra che abbiamo fatto dei grandi
progressi?? Ricordiamoci che il servo casato del feudatario era considerato una
persona e non una cosa!! Chiaro il concetto!!