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domenica, novembre 13, 2005

Ma della rivolta di Parigi non se ne parla più? 

Uso il termine più conosciuto e più stereotipato di “rivolta di Parigi”, ma dovrei dire “di Francia” o meglio ancora “di Francia, Belgio e Germania”.
Chiarito questo, noto sui quotidiani un progressivo disimpegno dall’evento, mentre tra le righe si continua ad apprendere delle cifre impressionanti: il ritmo delle auto incendiate in Francia resta costante a 500 per notte anche adesso che è in vigore il coprifuoco; e la “moda” è arrivata anche in Belgio, dove si segnalano vari incendi di auto e di edifici pubblici e in Germania, segnatamente a Berlino, dove avvengono le stesse cose.
Sembra che cominci una sorta di tam-tam tra i giovani ribelli che si servono degli S.M.S. per comunicarsi – in codice – gli spostamenti notturni e le zone da investire: potenza delle nuove tecnologie che sostituiscono il vecchio “portaordini” con strumenti più moderni ma al tempo stesso più controllabili.
I nostri intellettuali invece si cimentano in altissime masturbazioni mentali circa le cause che hanno dato origine a queste manifestazio0ni di rivolta; l’unico che mi è sembrato abbastanza in linea con la verità – almeno quella che si conosce – è Massimo Fini che imputa la rivolta francese ad una sorta di battaglia contro “il sogno occidentale”.
Egli afferma che questa rivolta è a-politica, a-ideologica e a-religiosa e non trarrebbe origine neppure nell’emarginazione e nella miseria in quanto le banlieu parigine non sono affatto miserabili ma ben ordinate e abbastanza fornite di servizi sociali; sono inoltre ben collegate al centro della città da un’ottima rete di metropolitane.
E allora? Allora, la rivolta sarebbe contro il “sogno occidentale”, sogno a sua tempo sognato dai loro genitori e che questi giovai magrebini e non, ma nati in Francia, hanno capito che chiede prezzi esistenziali sempre più alti per poi non dare in cambio nulla di apprezzabile, tantomeno quell’equilibrio e quell’armonia di cui hanno memoria dai racconti dei loro genitori riguardanti la vita che vivevano nei loro pur poveri Paesi.
Nell’ipotesi poi di una estensione della rivolta ad altri giovani europei, si può ipotizzare che alle spalle del famigerato “sogno occidentale” questi giovani intravedano la possibilità che debba essere esistito un mondo meno stressante e insensato di questo che viene presentato loro come “il migliore possibile”.
Se così è stiamo freschi! Ma la mia mente, sempre rivolta a cogliere delle immagini di ritorno, mi porta a ricordarmi e a ricordarvi un vecchio film americano del 1969 (che prese anche l’Oscar se non ricordo male) dal titolo “Non si uccidono così anche i cavalli?” di Sydney Pollack, interpretato da una giovanissima Jane Fonda.
In questo film si narra la storia di una maratona di ballo che è in pratica una gara ad eliminazione (chi non ce la fa più si ritira) articolata su vari giorni – notte e giorno – in cui le coppie di esibiscono davanti ad un pubblico pagante che prende a sostenere una coppia invece di un’altra e ci scommette sopra pure dei soldi; anche qui in teoria c’è un grosso premio finale – per chi ci arriva – ma nella realtà, la struttura organizzativa taglieggia tanto questa cifra da renderla quasi ridicola; ed ecco la tematica: “l’uomo viene spremuto come un limone, da lui vengono richieste sempre maggiori e migliori prestazioni, con la prospettiva di vincere un bel premio, ma in realtà questo premio non esiste e tutto viene fatto in funzione della struttura che organizza l’evento che è poi la sola a guadagnarci sopra”.
Forse non è facile trovarne una copia, ma se ci riuscite vedetelo perché anche a distanza di 36 anni mi sembra sempre attualissimo.

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