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domenica, novembre 26, 2006

LA CERTEZZA DELLA PENA 

Cerchiamo di dare un significato concreto a questo modo di dire, utilizzando – in forma strumentale – un fatto realmente accaduto e del quale sono venuto a conoscenza attraverso la stampa.
Cominciamo dalla vicenda: siamo in Toscana e precisamente a Grosseto; una donna di 29 anni – al termine di una gravidanza tenuta nascosta a tutti, anche al marito – uccide la neonata poco dopo il parto e nasconde il corpicino nella cesta per i panni sporchi, recandosi subito dopo all’Ospedale in preda ad una violenta emorragia che viene motivata come la conseguenza di un aborto subito in Romania; il marito torna a casa e, trovato il neonato, lo nasconde ulteriormente in una stufa, dove lo trovano i Carabinieri, allertati dall’Ospedale.
Vediamo adesso la conclusione giudiziaria: la donna viene rinviata a giudizio con l’accusa di omicidio volontario aggravato, reato che il giudice decide di derubricare in infanticidio, per il quale la pena prevista dal codice è di 12 anni; se a questo ci togliamo il canonico “terzo” (4 anni) che è lo sconto previsto per chi accetta il rito abbreviato, nonché altri 4 anni per le attenuanti generiche ed infine i tre anni previsti per l’applicazione dell’indulto, resta da scontare un misero anno di carcere per un reato che chiamarlo “efferato” è dire poco.
E adesso passiamo al marito: processato per maltrattamenti in famiglia e occultamento di cadavere, è stato condannato a 2 anni e 4 mesi di carcere, pena interamente condonata per effetto del già citato indulto: in conclusione, è già libero come un uccellino.
Torniamo adesso al concetto di “certezza della pena” e vediamone i risvolti: da un punto di vista personale, che c’importa a quanto viene condannata una donna e il di lei marito entrambi da noi non conosciuti? E allora questa “certezza della pena” per chi è, chi se ne avvale, chi ne ha bisogno?
Nel primo trattato sulle pene e i delitti del Beccarla (siamo nel 1800), si legge che la pena comminata al reo di un delitto deve essere più alta quando il delitto è più efferato: per quale motivo? Perché, sostiene il celebre giurista torinese, la società tutta subisce una sorta di lesione ogniqualvolta viene commesso un delitto e tale lesione è più profonda quanto il delitto è più grave; la pena che viene comminata al reo, serve a lenire – almeno in parte – questa specie di dolore diffuso nella società per l’accaduto violento.
Pensiamo adesso a quella parte di “società” che – come un anello concentrico - è più vicina al luogo in cui è stato commesso il reato e, forse ne conosce i protagonisti, addirittura, in qualche caso, ha legami di parentela con loro; ebbene per questa porzione di umanità, la lesione è ancora più marcata ed il bisogno di giustizia è ancora più specifico e, se questo non avviene può dare luogo a insensate manifestazioni di ritorsione verso il colpevole (vero o presunto) con tentativi di “farsi giustizia da soli”.
Ora io dico – senza voler insegnare niente a nessuno – a quei magistrati che amministrano giustizia “in nome del popolo italiano”, di tenere ben presente che se la società non riceve “giustizia”, prima o poi se ne impadronisce da sola ed allora siamo in presenza di un nuovo reato che va ad assommarsi al precedente, realizzando una sorta di “catena” che poi è ben difficile spezzare.

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