lunedì, aprile 08, 2013
CELLULARE, CHE PASSIONE!!
La grande invenzione di Martin Cooper compie
40 anni: mi riferisco al “cellulare” e, ad onor del vero ed a sentire le
confidenze dei suoi amici, il geniale Martin non pensava certo di far compiere
un così grande passo avanti all’umanità, da sconvolgerle la vita!
Il telefono, per la verità, esisteva già fin
dai tempi della querelle tra Meucci e Bell, ma Cooper – capo ricercatore alla
Motorola – inventò un accessorio diventato in breve indispensabile: il telefono
cellulare, un aggeggio, cioè che si poteva portare dietro e usare in qualunque
posto (o quasi).
Il primo apparecchio uscito dalla fabbrica si
chiamava DynaTac, pesava un chilo e mezzo e garantiva un’autonomia di trenta
minuti, dopo essere stato attaccato alla presa per la ricarica per dieci ore.
Il prototipo Motorola costava 4/mila dollari
e per coloro che se lo potevano permettere, veniva considerato un’inezia se
comparato al costo di ogni singolo minuto di conversazione; comunque, il
cellulare rimase “un sogno” per moltissima gente.
Passeranno ben 10 anni perché il prototipo
venga sostituito dal suo successore, il DynaTac 8000X,; dopo 6 anni nacque il
MicroTac, il primo “flip phone” che, dopo quattro anni venne sostituito dal
Simon Personal Comunicator, il primo con i requisiti di uno smarthphone; in
Italia la prima azienda che si occupò di questo prodotto fu la Olivetti che realizzò un
cellulare chiamato dai clienti “spaccatasche” perché era ingombrante e di
notevole peso e per questi motivi, ovunque cercassi di infilarlo, riusciva a
creare danni al tuo vestito.
Il primo problema che creò il nuovo aggeggio,
fu quello della privacy e della reperibilità, in quanto ogni possessore di
cellulare era (ed è; smettiamo di usare
il passato) alla mercè di qualsiasi scocciatore che sia in possesso del
numero di riferimento; ma lo slogan che venne usato in quei tempi era: “sei in
contatto con il Mondo e il Mondo è in contatto con te””; quasi tutti ci
cascarono e non compresero il sottostante legame che veniva a crearsi tra il
chiamante e il chiamato.
Ricordo che negli anni di inizio secolo –
2000 o giù di lì – quando avere il Blackberry era un simbolo di emancipazione
sociale, una volta mi ritrovai in treno, in uno scompartimento in cui c’ero
solo io e un signore che salì sul treno dopo di me e appena preso possesso del
posto, tirò fuori di tasca 3(tre!!) cellulari e li mise ostentatamente vicino a
se. Il tempo passava e il trillo non veniva, i cellulari non davano segni di
vita; il signore che voleva “ostentare”, controllò invano varie volte le
apparecchiature per vedere se erano accese e dovette arrendersi al fatto che
“non lo cercava nessuno” e questo lo turbò fortemente; se avessi saputo il suo
numero, lo avrei chiamato, tanto per sollevargli lo spirito.
Adesso, fateci caso: specialmente i giovani,
salgono su un mezzo pubblico e la prima cosa che fanno è quello di controllare
il cellulare: lo aprono, guardano se ci sono chiamate e, in caso contrario, si
mettono a fare messaggi in modo incessante.
E lo fanno in maniera splendida, a giudicare dalla parte di un anziano come me
che ci riesce solo stando a sedere: stanno in piedi con una mano si reggono
alla struttura del bus e con l’altra tengono il cellulare e contemporaneamente scrivono il
messaggio.
C’è poi il rapporto che, attraverso il
cellulare, s’instaura tra figli e genitori: i ragazzi, ai quali è stato
comprato “doverosamente” un bellissimo cellulare, vengono contattati dai
genitori che chiedono le cose più banali al solo scopo di conoscere – se i
figli glielo dicono – “dove sono in quel momento”; illusii!!