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giovedì, febbraio 09, 2012

LA CHIESA, L'UOMO E IL LAVORO 

“Non è l’uomo per il sabato , ma il sabato per l’uomo”; con questa frase la Chiesa affronta il problema del lavoro, guardandolo da una prospettiva diversa da quella che si sente, una prospettiva che colloca l’uomo al centro di ogni cosa e non viceversa. Insomma, si afferma che “quando si sacrificano le persone al risultato, qualcosa non funziona” e credo che sia il nostro caso; perché lo dice solo la Chiesa?
E per spiegare meglio, diciamo che non deve esserci contrapposizione tra quanto serve alla maggioranza e quanto occorre alla singola persona; e se ci dovesse essere, il singolo dovrebbe sempre essere vincitore; ma questa contrapposizione non dovrebbe esistere e, se esiste è per colpa dell’attuale società “globalizzata” che ha fatto perdere all’individuo ogni propria identità.
Nelle società preindustriali, la gente viveva all’interno di luoghi circoscritti in cui operava un “uomo” che conosceva tutti ed era da tutti conosciuto; ognuno di questi individui – sia pure povero e marginale – aveva una parte nel “copione generale”, un posto, un ruolo (o credeva di averlo, il che fa lo stesso), insomma non era semplicemente spettatore, numero, o peggio ancora “consumatore”.
In mezzo a questa folla, l’uomo moderno ha perduto la propria identità ed è diventato uno tra tanti, si è automaticamente massificato nei bisogni e soprattutto nei consumi, in particolare in questi ultimi.
Per vedere il rapporto tra uomo e consumi, è bene fare una prima considerazione; avrete sentito dire da economisti e politici attuali, una frase che recita pressappoco così: “bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione”; se la si esamina con attenzione, questa frase è folle, perché significa che noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre e quindi il meccanismo economico non è al nostro servizio, ma noi siamo al suo.
In pratica siamo i tubi digerenti, i lavandini, i water attraverso i quali deve passare, il più rapidamente possibile, tutto quello che altrettanto rapidamente produciamo; siamo quindi il terminale “uomo”, la variabile dipendente dell’economia; anzi non siamo neppure uomini, ma “consumatori” (ci sono diverse associazioni di consumatori che evidentemente non si vergognano di definirsi tali e accettano con fatalismo la propria definizione di consumatori).
E per dirla tutta, non siamo neppure consumatori coscienti e volontari, ma delle rane che, opportunamente stimolate dalla pubblicità, devono saltare anche quando vorrebbero star ferme, per non assumersi la responsabilità di ostacolare l’onnipotente meccanismo che ci sovrasta: l’economia globalizzato!
In termini psichiatrici, questo modo di comportarsi – assai diverso da quello dell’uomo preindustriale – è una autentica follia, confermata dai dati e dalle statistiche: i suicidi in Europa, sono quasi decuplicati rispetto all’era precedente: erano 2,5 per 100/mila abitanti e sono diventati 20 per 100/mila, al giorno d’oggi.
Nevrosi e depressioni, pressoché sconosciute nel mondo di ieri, sono malattie della modernità e diventano un problema sociale nelle classi agiate, tanto che la psicoanalisi è diventata una scienza indispensabile nella medicina odierna.
E ritorno all’inizio di questo mio pensiero: se l’uomo non riuscirà a riprendersi il proprio ruolo – con le buone o con le cattive – sarà sempre più costretto a rimanere accucciato sotto la cappa della globalizzazione; ed io continuerò ad attendere qualcuno o qualcosa che si unisca alla Chiesa nella difesa del singolo “uomo”. Avrò fortuna?

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