venerdì, dicembre 23, 2011
COME PUNIRE "I FOLLI"?
In questi ultimi mesi, abbiamo avuto diverse stragi che hanno riguardato realtà europee e, in particolare: la vicenda Breivik in Norvegia, l’altra a Liegi con il giovane che lancia addirittura delle granate sulla folla e, l’ultima - almeno per il momento - la storia del “folle” che uccide a Firenze tre senegalesi, in prega ad una supposta smania razzista.
In tutti questi casi, la prima cosa che viene detta è: “è un pazzo; infatti, solo un pazzo può fare una cosa così insensata”.
Dobbiamo quindi premettere che per le nostre menti “normali”, solo un pazzo poteva decidere di sparare, a freddo, contro delle persone che nemmeno conosceva, al solo scopo di “ucciderne” il più possibile.
Aggiungo che continuiamo a chiamarli “pazzi” anche quando queste menti partoriscono “grandi principi” oppure “grandi ideali”; questo in particolare nel caso di terroristi che si fanno esplodere insieme al maggior numero possibile di persone, uccidendole insieme a se stesso.
Però, quando si tratta di persone che vengono catturati e processati, ecco che il nostro ragionamento cambia: non siamo più disponibili a concedere loro lo status di “non responsabile delle proprie azioni” e vogliamo – a torto o a ragione – che siano puniti come criminali comuni, quindi con il carcere e non con il manicomio.
Questo perché nelle loro azioni delittuose hanno dimostrato una tale lucidità, una tale volontà, una tale capacità organizzativa che non riusciamo a considerarli “matti” e quindi chiediamo che siano equiparati al criminale comune.
La nostra idea di matto è quella del demente dei film, un essere irresponsabile delle proprie stravaganze, mentre l’assassino di massa – lucido e crudele – sfugge a questa definizione, perché l’orrore per la sua ferocia è superiore alla pena per il suo male.
Ed è per questo che nel caso Breivik, tutti noi – esclusi quelli favorevoli alla pena di morte – abbiamo sperato, desiderato, che il “pazzo” finisse in galera e ci rimanesse a vita. Ed è per questo che ci arrabbiamo nell’apprendere che quel giovanottone biondo, con la faccia un po’ da cretino, finirà in manicomio e non in prigione.
Il primo parallelismo che tendiamo a fare è quello coni criminali nazisti, processati a Norimberga e condannati a pene durissime, a morte o al carcere a vita: e ci viene di pensare che applicando lo stesso criterio usato dai norvegesi per Breivik, anche i criminali nazisti, in teoria anche Hitler, sarebbero stati condannati dai giudici di Norimberga a un soggiorno più o meno lungo in un bel manicomio, nel quale attente e premurose cure avrebbero sostituito il boia per l’esecuzione dell’impiccagione.
Quei giudici avrebbero potuto dire la stessa cosa che è stata affermata da quelli di Norimberga: “era in uno stato psicotico, di schizofrenia paranoica e viveva in un proprio universo allucinato”.
Però, nel caso specifico del folle norvegese, dobbiamo riflettere su una circostanza: in Norvegia non esiste l’ergastolo e quindi in qualche modo avrebbe potuto uscire di galera dopo un certo periodo; in manicomio, invece, non c’è via d’uscita, a meno che un medico non si assuma la responsabilità di affermare che il biondone “è guarito a tutti gli effetti”. Insomma, in manicomio potrebbe restare anche tutta la vita!!
E quindi, possiamo dire che in questo caso il manicomio potrebbe rappresentare il “miglior sistema” punitivo; e non dimentichiamo che gli avvocati delle vittime, all’unisono con il difensore dello squilibrato, hanno affermato: “l’importante è che non possa più camminare per strada”; brutale ma efficace!!
In tutti questi casi, la prima cosa che viene detta è: “è un pazzo; infatti, solo un pazzo può fare una cosa così insensata”.
Dobbiamo quindi premettere che per le nostre menti “normali”, solo un pazzo poteva decidere di sparare, a freddo, contro delle persone che nemmeno conosceva, al solo scopo di “ucciderne” il più possibile.
Aggiungo che continuiamo a chiamarli “pazzi” anche quando queste menti partoriscono “grandi principi” oppure “grandi ideali”; questo in particolare nel caso di terroristi che si fanno esplodere insieme al maggior numero possibile di persone, uccidendole insieme a se stesso.
Però, quando si tratta di persone che vengono catturati e processati, ecco che il nostro ragionamento cambia: non siamo più disponibili a concedere loro lo status di “non responsabile delle proprie azioni” e vogliamo – a torto o a ragione – che siano puniti come criminali comuni, quindi con il carcere e non con il manicomio.
Questo perché nelle loro azioni delittuose hanno dimostrato una tale lucidità, una tale volontà, una tale capacità organizzativa che non riusciamo a considerarli “matti” e quindi chiediamo che siano equiparati al criminale comune.
La nostra idea di matto è quella del demente dei film, un essere irresponsabile delle proprie stravaganze, mentre l’assassino di massa – lucido e crudele – sfugge a questa definizione, perché l’orrore per la sua ferocia è superiore alla pena per il suo male.
Ed è per questo che nel caso Breivik, tutti noi – esclusi quelli favorevoli alla pena di morte – abbiamo sperato, desiderato, che il “pazzo” finisse in galera e ci rimanesse a vita. Ed è per questo che ci arrabbiamo nell’apprendere che quel giovanottone biondo, con la faccia un po’ da cretino, finirà in manicomio e non in prigione.
Il primo parallelismo che tendiamo a fare è quello coni criminali nazisti, processati a Norimberga e condannati a pene durissime, a morte o al carcere a vita: e ci viene di pensare che applicando lo stesso criterio usato dai norvegesi per Breivik, anche i criminali nazisti, in teoria anche Hitler, sarebbero stati condannati dai giudici di Norimberga a un soggiorno più o meno lungo in un bel manicomio, nel quale attente e premurose cure avrebbero sostituito il boia per l’esecuzione dell’impiccagione.
Quei giudici avrebbero potuto dire la stessa cosa che è stata affermata da quelli di Norimberga: “era in uno stato psicotico, di schizofrenia paranoica e viveva in un proprio universo allucinato”.
Però, nel caso specifico del folle norvegese, dobbiamo riflettere su una circostanza: in Norvegia non esiste l’ergastolo e quindi in qualche modo avrebbe potuto uscire di galera dopo un certo periodo; in manicomio, invece, non c’è via d’uscita, a meno che un medico non si assuma la responsabilità di affermare che il biondone “è guarito a tutti gli effetti”. Insomma, in manicomio potrebbe restare anche tutta la vita!!
E quindi, possiamo dire che in questo caso il manicomio potrebbe rappresentare il “miglior sistema” punitivo; e non dimentichiamo che gli avvocati delle vittime, all’unisono con il difensore dello squilibrato, hanno affermato: “l’importante è che non possa più camminare per strada”; brutale ma efficace!!