martedì, settembre 27, 2011
IL CINEMA E L'IMMIGRAZIONE
La tematica preminente nei film presentati alla Mostra del Cinema di Venezia è stata sicuramente quella dell’immigrazione – regolare e non – e questo, probabilmente perché gli autori non vivono in cima ad una montagna, ma frequentano le strade ed i locali come tutti noi e si rendono conto che questo problema sta a cuore alla gente.
Ma qual’è la posizione prevalente tra la gente comune, quella del Bar vicino a casa o del Supermercato all’angolo? Da quello che ho capito io – e so benissimo di non portare avanti un modo facile di pensare – la gente, quella gente, non gradisce molto la presenza di questi “stranieri”, ai quali imputa anche cose che non li riguardano affatto, come la mancanza di lavorio eccetera; d’altra parte esistono da noi tutta una serie di lavori che gli indigeni non gradiscono più fare (badanti, donne di servizio, infermieri/e generici, manovali nell’edilizia, eccetera), ma nessuno di noi ci pensa e si decide “a fare concorrenza agli extracomunitari”, che continuiamo a considerare come persone che arrivano in casa nostra pur non essendo stati invitati.
Il cinema ovviamente vede la cosa molto diversamente: per esempio, in “Terraferma”, contro la scrupolosa osservanza delle norme sul respingimento, il giovane siciliano si prende la responsabilità di portare personalmente, con la propria barca, una emigrata che ha partorita in casa sua, assistita dalla madre: insomma, il problema “immigrazione” è presentato come lo sfondo di varie vicende “umane” e non come problematica emergente per la gente di tutti i giorni, che continua a scansarsi quando si ritrova un negro vicino sulla metropolitana o su altri mezzi di trasporto.
E quando strutture come la Chiesa invitano la popolazione a prestare aiuto e soccorso nei confronti di questi disperati, la cosa più frequente che sento dire è: ma perché non li mettono in Vaticano, dove invece non ce n’è nemmeno uno??
Il mio pensiero in proposito – per quello che può valere – lo conoscete e lo riepilogo in poche parole: anzitutto se queste persone avessero una vita decente a casa propria non verrebbero a fare gli schiavi da noi; non si tratta di una “immigrazione”, ma di una autentica “migrazione”, sul tipo di quelle di cui leggiamo sui libri di storia; queste popolazioni abitano in luoghi che non assicurano neppure il minimo indispensabile e quindi è giocoforza andarsene per cercare qualcosa che permetta loro di sopravvivere; questo sta accadendo; fenomeni di criminalità sono “normali” appendici al problema..
Però una cosa vorrei che fosse compresa bene: questi signore e signori debbono seguire le leggi dei Paesi che vanno ad “investire”, senza nessuno sconto per incomprensioni od altre scuse del genere; per fare questo è necessario che riescano – in tempi ragionevoli – ad entrare in possesso della lingua del paese ospitante, soprattutto per poter leggere tutto quello che forma la normativa di legge.
Ed a questo proposito vi voglio raccontare una storia: in una città vicino a dove risiedo: nel 2007 un cinese arrivato in Italia da un anno, viene trovato al volante della sua auto privo di patente; nel verbale della Polizia c’è scritto “parla un po’ d’italiano”; nel 2009 stessa storia e nuovo verbale; adesso gli è stato inviato il verbale di conclusione delle indagini e del rinvio a giudizio, ma il Giudice preposto alla causa ha accolto l’eccezione dell’avvocato difensore che sostiene come il verbale non sia stato tradotto in “mandarino” e quindi il suo cliente non poteva capirne il contenuto.
Ecco perché sostengo, ormai da tempo, che imparare la nostra lingua è il primo passo per una effettiva integrazione; a meno che non si voglia assumere alle Procure una pletora di interpreti al solo scopo di tradurre gli atti a beneficio degli immigrati! Chiaro??
Ma qual’è la posizione prevalente tra la gente comune, quella del Bar vicino a casa o del Supermercato all’angolo? Da quello che ho capito io – e so benissimo di non portare avanti un modo facile di pensare – la gente, quella gente, non gradisce molto la presenza di questi “stranieri”, ai quali imputa anche cose che non li riguardano affatto, come la mancanza di lavorio eccetera; d’altra parte esistono da noi tutta una serie di lavori che gli indigeni non gradiscono più fare (badanti, donne di servizio, infermieri/e generici, manovali nell’edilizia, eccetera), ma nessuno di noi ci pensa e si decide “a fare concorrenza agli extracomunitari”, che continuiamo a considerare come persone che arrivano in casa nostra pur non essendo stati invitati.
Il cinema ovviamente vede la cosa molto diversamente: per esempio, in “Terraferma”, contro la scrupolosa osservanza delle norme sul respingimento, il giovane siciliano si prende la responsabilità di portare personalmente, con la propria barca, una emigrata che ha partorita in casa sua, assistita dalla madre: insomma, il problema “immigrazione” è presentato come lo sfondo di varie vicende “umane” e non come problematica emergente per la gente di tutti i giorni, che continua a scansarsi quando si ritrova un negro vicino sulla metropolitana o su altri mezzi di trasporto.
E quando strutture come la Chiesa invitano la popolazione a prestare aiuto e soccorso nei confronti di questi disperati, la cosa più frequente che sento dire è: ma perché non li mettono in Vaticano, dove invece non ce n’è nemmeno uno??
Il mio pensiero in proposito – per quello che può valere – lo conoscete e lo riepilogo in poche parole: anzitutto se queste persone avessero una vita decente a casa propria non verrebbero a fare gli schiavi da noi; non si tratta di una “immigrazione”, ma di una autentica “migrazione”, sul tipo di quelle di cui leggiamo sui libri di storia; queste popolazioni abitano in luoghi che non assicurano neppure il minimo indispensabile e quindi è giocoforza andarsene per cercare qualcosa che permetta loro di sopravvivere; questo sta accadendo; fenomeni di criminalità sono “normali” appendici al problema..
Però una cosa vorrei che fosse compresa bene: questi signore e signori debbono seguire le leggi dei Paesi che vanno ad “investire”, senza nessuno sconto per incomprensioni od altre scuse del genere; per fare questo è necessario che riescano – in tempi ragionevoli – ad entrare in possesso della lingua del paese ospitante, soprattutto per poter leggere tutto quello che forma la normativa di legge.
Ed a questo proposito vi voglio raccontare una storia: in una città vicino a dove risiedo: nel 2007 un cinese arrivato in Italia da un anno, viene trovato al volante della sua auto privo di patente; nel verbale della Polizia c’è scritto “parla un po’ d’italiano”; nel 2009 stessa storia e nuovo verbale; adesso gli è stato inviato il verbale di conclusione delle indagini e del rinvio a giudizio, ma il Giudice preposto alla causa ha accolto l’eccezione dell’avvocato difensore che sostiene come il verbale non sia stato tradotto in “mandarino” e quindi il suo cliente non poteva capirne il contenuto.
Ecco perché sostengo, ormai da tempo, che imparare la nostra lingua è il primo passo per una effettiva integrazione; a meno che non si voglia assumere alle Procure una pletora di interpreti al solo scopo di tradurre gli atti a beneficio degli immigrati! Chiaro??