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venerdì, gennaio 14, 2011

LA VICENDA FIAT MIRAFIORI 

Scrivo queste note prima di conoscere l’esito del referendum tra i lavoratori in merito al nuovo contratto di lavoro con l’Azienda, in quanto lo stesso mi sembra “inquinato” fortemente da una componente che è la necessità del lavoro: se mi si dice che nel caso il referendum non passi e quindi non ci sia un contratto da usare, lo stabilimento di Mirafiori potrebbe anche chiudere ed il suo posto potrebbe essere preso da altre strutture che si sono dichiarate disposte a subentrare, una in Canada e una in Michigan, è chiaro che la scelta del dipendente è tutto fuorché libera.
Da una parte c’è Marchionne che, all’accusa di dispotismo risponde che lui non fa altro che “cambiare il modo di lavorare in Italia”; dall’altra c’è un sindacato che arriva a dire che se nel referendum vincerà il SI, “andremo dai giudici”, non avendo capito che se vince il “NO”, non ci sarà più nessuno da denunciare, perché non ci sarà più l’Azienda.
Il contratto che viene proposto – salvo verifica ad un più approfondito esame – cerca di massimizzare il lavoro facendolo costare sempre di meno, al fine di poter ricavare sempre più “utili” dal singolo operaio (l’aveva già detto Carl Marx); il dipendente peraltro andrebbe a guadagnare di più, dando in cambio una vita di lavoro molto più stressante di quella che è adesso.
Se Marchionne arriva a proporre questa tipologia di lavoro, lo fa perché in questo mondo “globalizzato”, deve fare i conti con “situazioni” in cui i lavoratori vengono gestiti in un modo nettamente peggiore di quello che accadrebbe a Mirafiori.
E qui mi viene di fare un passo indietro: ricordate quando negli anni ’70 cominciava ad arrivare un po’ di merce prodotta in Cina? Aveva due caratteristiche: costava poco ed era singolarmente brutta, sia sotto il profilo estetico che in quello della realizzazione.
C’era il prezzo invitante ed il fascino dell’oggetto esotico e così questo commercio prese piede; in tutti noi rimase il dubbio di come facessero a portare in Italia degli oggetti che costavano così poco; ci fu risposto che il “costo del lavoro” in Cina era bassissimo e quindi si potevano fare quei prezzi; quando poi noi si obbiettava che questo andazzo avrebbe potuto continuare ed incidere sull’economia dei paesi occidentali, tutti rispondevano – con la sicumera tipica dell’ignorante – che non c’era da preoccuparsi, perché sia pure lentamente, anche in Cina il mercato del lavoro sarebbe stato regolato da leggi simili alle nostre e quindi i loro salari si sarebbero avvicinati ai nostri, producendo così una sostanziale parità dei prezzi.
Spero che vi ricordiate bene il tutto, perché adesso, invece di assistere all’adeguamento dei cinesi al mercato del lavoro occidentale, stiamo andando in senso opposto, cioè il nostro mercato del lavoro si sta avvicinando a quello cinese (e ci sarebbe da aggiungere anche a quello indiano) il quale viaggia verso una media oraria di un euro, quindi – per una giornata di 10 ore – si incassano dieci euro.
Ma torniamo alla FIAT ed al referendum; se vincesse il “NO” al contratto proposto dall’Azienda, come detto da Marchionne, verrebbero trovati altri siti industriali all’estero dove produrre il SUV che si dovrebbe realizzare a Torino; ma mi è venuta un’altra idea sul futuro della storia: stante che la FIAT è arrivata a possedere il 25% di Chrysler, molti pensano che entro breve termine questa percentuale dovrebbe arrivare al 51%.
E allora, si potrebbe verificare che la Chrysler diventi FIAT, ma potrebbe accadere anche l’inverso, cioè che la casa americana subentri a quella italiana e quindi la casa torinese possa dismettere tutte le sue attività in Italia; non scordiamoci che la FIAT è, a tutti gli effetti, una multinazionale; con tutto quel che ne consegue.

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