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lunedì, ottobre 11, 2010

DECRESCITA E SVILUPPO 

Nel mio post più recente, ho accennato alla teoria della sobrietà e della decrescita del Professor Latouche dell’Università di Parigi che, in parole povere, si sostanzia in un diverso modo di approcciare la propria esistenza: lavorare meno, guadagnare meno e consumare meno, soprattutto per quanto riguarda i consumi di merce superflua, proprio quella che invece al giorno d’oggi, suscita i maggiori interessi in coloro che definirei affetti da “compulsione al consumo”, situazione psico-patologica indotta dalla odierna civiltà.
Quindi il povero professor Latouche si ritrova a combattere una battaglia che assomiglia molto a quella di Don Chisciotte contro i mulini a vento; infatti nella nostra società ci ritroviamo ad operare in una serie di assurdi, il primo dei quali recita che “non è bene accontentarsi di ciò che si ha”, fondando così – con il placet anche dei marxisti - il principio dell’infelicità umana.
Come si combatte questa forma di angoscia? Semplice, con il consumismo più esasperato e inutile: avrete sentito dire mille volte da politici e da economisti che “bisogna stimolare i consumi per aumentare la produzione”, frase che oltre che folle è una solenne idiozia, in quanto inganna la gente, poiché canonizza che noi non produciamo più per consumare, ma consumiamo per produrre, sottacendo con questa forma sottile ma reale di ossimoro, che il meccanismo economico-finanziario non è al nostro servizio ma noi al suo.
Noi consumatori siamo i tubi digerenti, i lavandini, i water dai quali deve passare il più velocemente possibile ciò che altrettanto velocemente viene prodotto; è l’offerta che crea la domanda e non viceversa e così si scopre che i bisogni possono essere eterodiretti, suscitati artificialmente dall’esterno e nasce così la figura chiave di questi due secoli: il consumatore.
Quando le società più evolute hanno dato inizio a questo vorticoso carosello di beni – molti dei quali inutili – si è creato un dinamismo forsennato nelle velleità produttive di merci che qualcuno poi DEVE consumare in modo che il processo si possa riprodurre giorno dopo giorno.
Anzi, direi che il rischio sia quello che questo processo – per motivi intrinseci o estrinseci – si interrompa e retroceda; ebbene, sarebbe come se un treno che viaggia a tutta velocità, senza nessuno che lo piloti, improvvisamente, mentre imbocca una salita, perda forza e quindi velocità: la conclusione logica è che la locomotiva non traina più i vagoni e così il tutto deraglia fuori dai binari; questo purtroppo potrebbe essere il finale della partita.
E si ritorna all’infelicità: se pensiamo che il treno non continui all’infinito la sua stupida corsa, si perde fiducia in quello che siamo e che dobbiamo conquistare al fine di raggiungere la felicità; ed allora, un passo prima della follia, abbiamo l’uso spasmodico di psicofarmaci e di tranquillanti, i primi per drogare le nostre forze, i secondi per consentirci di riposare prima del nuovo inizio della battaglia.
Il tutto, per fare una guerra che altri vinceranno (o perderanno) e che alla gente comune, ai consumatori, lascerà soltanto la “gioia” di continuare ad avere dei “bisogni”, i quali – come bene dice lo psicologo Origlia – “sono bisogni surrettizi, ripetitivi, inesauribili, una vera e propria coazione a ripetere di tipo paranoico da cui il grande assente è proprio il piacere”. Scusate il pessimismo, ma è quello che mi pervade al momento e quindi ve lo devo esprimere.

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