sabato, settembre 25, 2010
RELATIVISMO E PECCATO
Il fido “Devoto-Oli così definisce il peccato: “violazione dell’ordine morale, specialmente in quanto motivo di condanna o di pentimento nell’ambito della legge e dell’esperienza religiosa”; quindi, occorre che ci sia una sovrastrutture (religiosa?) che stabilisca quello che è peccato ed anche se possiamo parlare di peccato veniale o mortale; insomma tutta una scala di valori e di importanza che viene data alle nostre azioni.
Partiamo dalla Sacra Scrittura e vediamo quali sono i peccati cosiddetti “capitali”: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria; è chiaro che se togliessimo dalla faccia della Terra tutte quelle azioni che contengono uno dei suddetti peccati, le cose andrebbero meglio, ma evidentemente non si può e quindi dobbiamo tenerceli.
In soccorso dei peccatori, è arrivato ai tempi nostri il cosiddetto relativismo; il primo a parlarne è stato l’allora Cardinale Ratzinger nella messa “pro eligendo Pontefice”: egli ebbe ad affermare che “esiterebbe una sorta di dittatura del relativismo che non riconosce nulla di definitivo e che lascia come ultima misura il proprio IO e le sue voglie”; se ne deduce che qualsiasi legge morale, da qualunque confessione religiosa provenga, viene prima vagliata attraverso le considerazioni del singolo individuo e riceve il “via libera” per la propria coscienza soltanto se coincide con esse.
Altrimenti si ha la frase rituale che recita pressappoco così: io credo in Dio ma non credo nella Chiesa e tantomeno nei preti; così facendo l’individuo tende a realizzare un collegamento diretto tra lui ed il Padreterno, colui cioè che ha inventato le regole e le ha trasmesse al genere umano perché le applicasse e ne fosse così felice e contento.
La mia sensazione – non sono un assiduo frequentatore di Chiese – è che l’attuale ordine di scuderia sia quello di glissare il più possibile sui peccati sopra specificati e concentrare il sermone su cose che “fanno sentire bene” la gente.
Quindi, abolito l’iter che partiva dal peccato, proseguiva con il pentimento e finiva con la redenzione, adesso non avendo più il concetto della “consapevolezza e del timore del peccato”, praticamente scomparsi, siamo soliti chiederci non più “cosa desidera Dio da me”, ma “cosa può fare Dio per me”, arrivando addirittura a chiederGli l’aumento di un certo titolo in Borsa o la vincita al Superenalotto.
Nella grandissima e molto densa marmellata che è adesso la nostra società, abbiamo cancellato una serie di termini proprio perché non sono “politicamente corretti”; e quindi non diciamo che due persone “vivono nel peccato”, quando convivono pur non essendo sposati, ma si dice “vivono insieme”, così come per gli “adulteri” si dice semplicemente che “hanno una storia”.
Dicevo alcuni giorni addietro in un mio post, che adesso la nostra società ci chiede di “apparire in un certo modo ” e non di esserlo e questa è la condizione ideale per colui che pecca, in quanto la gente è pronta ad accettare come “normale” quello che è “peccaminoso” e quindi è sufficiente “galleggiare” in questa palude dei sentimenti.
La gente dice: “in campo morale sono molto esigente sia con me stesso che con gli altri, ma so che siamo umani e quindi non mi aspetto troppo”; questo bel discorsino ha due punti focali: il primo è quel giudicare “esigente” il suo approccio alla morale ed il secondo è il dare per scontato che l’uomo è peccatore per definizione e quindi auto-scusarsi per i peccati che andremo a commettere;non so come funziona nelle altre confessioni, ma nel cattolicesimo, una recente ricerca ha stabilito nel 60% l’ammontare dei “credenti” che non si confessa e non si comunica con regolarità; può voler dire che “non si ritiene in peccato”? Forse!!
Partiamo dalla Sacra Scrittura e vediamo quali sono i peccati cosiddetti “capitali”: superbia, invidia, ira, accidia, avarizia, gola e lussuria; è chiaro che se togliessimo dalla faccia della Terra tutte quelle azioni che contengono uno dei suddetti peccati, le cose andrebbero meglio, ma evidentemente non si può e quindi dobbiamo tenerceli.
In soccorso dei peccatori, è arrivato ai tempi nostri il cosiddetto relativismo; il primo a parlarne è stato l’allora Cardinale Ratzinger nella messa “pro eligendo Pontefice”: egli ebbe ad affermare che “esiterebbe una sorta di dittatura del relativismo che non riconosce nulla di definitivo e che lascia come ultima misura il proprio IO e le sue voglie”; se ne deduce che qualsiasi legge morale, da qualunque confessione religiosa provenga, viene prima vagliata attraverso le considerazioni del singolo individuo e riceve il “via libera” per la propria coscienza soltanto se coincide con esse.
Altrimenti si ha la frase rituale che recita pressappoco così: io credo in Dio ma non credo nella Chiesa e tantomeno nei preti; così facendo l’individuo tende a realizzare un collegamento diretto tra lui ed il Padreterno, colui cioè che ha inventato le regole e le ha trasmesse al genere umano perché le applicasse e ne fosse così felice e contento.
La mia sensazione – non sono un assiduo frequentatore di Chiese – è che l’attuale ordine di scuderia sia quello di glissare il più possibile sui peccati sopra specificati e concentrare il sermone su cose che “fanno sentire bene” la gente.
Quindi, abolito l’iter che partiva dal peccato, proseguiva con il pentimento e finiva con la redenzione, adesso non avendo più il concetto della “consapevolezza e del timore del peccato”, praticamente scomparsi, siamo soliti chiederci non più “cosa desidera Dio da me”, ma “cosa può fare Dio per me”, arrivando addirittura a chiederGli l’aumento di un certo titolo in Borsa o la vincita al Superenalotto.
Nella grandissima e molto densa marmellata che è adesso la nostra società, abbiamo cancellato una serie di termini proprio perché non sono “politicamente corretti”; e quindi non diciamo che due persone “vivono nel peccato”, quando convivono pur non essendo sposati, ma si dice “vivono insieme”, così come per gli “adulteri” si dice semplicemente che “hanno una storia”.
Dicevo alcuni giorni addietro in un mio post, che adesso la nostra società ci chiede di “apparire in un certo modo ” e non di esserlo e questa è la condizione ideale per colui che pecca, in quanto la gente è pronta ad accettare come “normale” quello che è “peccaminoso” e quindi è sufficiente “galleggiare” in questa palude dei sentimenti.
La gente dice: “in campo morale sono molto esigente sia con me stesso che con gli altri, ma so che siamo umani e quindi non mi aspetto troppo”; questo bel discorsino ha due punti focali: il primo è quel giudicare “esigente” il suo approccio alla morale ed il secondo è il dare per scontato che l’uomo è peccatore per definizione e quindi auto-scusarsi per i peccati che andremo a commettere;non so come funziona nelle altre confessioni, ma nel cattolicesimo, una recente ricerca ha stabilito nel 60% l’ammontare dei “credenti” che non si confessa e non si comunica con regolarità; può voler dire che “non si ritiene in peccato”? Forse!!