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mercoledì, agosto 25, 2010

MELFI: BANCO DI PROVA PER LA DOTTRINA FIAT 

Riprendo – cercando di ampliarlo – il discorso da me fatto sul precedente post circa la vicenda dei tre operai dello Stabilimento FIAT di Melfi, licenziati dall’azienda con l’accusa di “sabotaggio volontario” durante una manifestazione spontanea e riammessi in fabbrica dal giudice del lavoro che – ai sensi dell’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori - ha attribuito alla FIAT un comportamento antisindacale.
Il successivo passo dell’azienda è stato quello di dover riconoscere ai tre operai la possibilità di svolgere la loro funzione sindacale sul posto di lavoro, ma senza riammetterli a pieno titolo nella catena di montaggio, anche se pagati come se fossero in servizio; e, secondo punto, ricorrere per la decisione iniziale.
Da questo primo scorcio della vicenda si può subito notare che essa rappresenta la visione della FIAT (dottrina Marchionne) su quello che saranno d’ora in avanti le relazioni industriali; in sostanza, alcuni ricorrenti potranno pure vincere davanti al Giudice del lavoro, ma questa rischia di trasformarsi nella classica vittoria di Pirro, in quanto costerà più ai vincitori che agli sconfitti.
I tre licenziamenti di Melfi e la successiva battaglia giudiziaria condotta senza esclusione di colpi, è un chiaro segnale per gli operai di Pomigliano: guai a violare i patti convenuti e sottoscritti dalla maggioranza dei lavoratori (e graditi ovviamente dalla FIAT) perché questi principi vanno avanti a qualunque altra esigenza, compresa quella del business immediato; non dimentichiamo che la Polonia è a un tiro di schioppo e la Serbia e la Slovenia ancora più vicine.
In concreto, la de-localizzazione diverrà una strada sempre più percorribile se non si capisce che lo “Statuto dei Lavoratori” è materiale vecchio ed obsoleto, soprattutto messo in piedi quando non esisteva la globalizzazione e neppure l’entrata in Europa di tante nazioni dell’est che sbavano dalla voglia di mettersi al servizio di Marchionne.
Come dicevo in altri miei interventi in materia, l’industriale “moderno”, oltre alla de-localizzazione della propria azienda in posti nei quali la remunerazione è un quinto della nostra, ha a disposizione anche l’utilizzo di autentiche mandrie di “schiavi”, che giungono nel nostro Paese alla ricerca di un tozzo di pane; quest’ultima situazione è quella che forse è diventata più scandalosa, proprio per l’utilizzo di gente improvvisata che non conosce gli strumenti che usa e per questo rischia di farsi del male.
Molto più che “farsi del male” è quanto è accaduto ad un giovane senegalese di soli 33 anni: giunto in Italia come “clandestino” (condizione ottimale per i mercanti di schiavi) è stato assunto, in nero ovviamente, da una azienda di marmi e adibito all’uso del “muletto”, mezzo che egli non aveva mai guidato e del quale non aveva nessuna conoscienza; in una località vicina alla città dove vivo, l’uomo stava trasportando una lastra di marmo con il suo muletto, quando si è reso conto che lo stesso stava andando per conto suo, senza che il senegalese sapesse come rimetterlo in carreggiata; preso dalla paura, si è gettato fuori nel disperato tentativo di salvarsi, ma questa mossa si è rivelata fatale in quanto il muletto gli è piombato addosso, fracassandogli la scatola cranica; il commento del titolare dell’azienda: “era in prova”.
Insomma, amici carissimi, mi sembra che l’operaio del futuro abbia due possibilità di lavoro: sottostare alla dottrina Marchionne, oppure fare parte della numerosa schiera di “schiavi” e in questa veste lavorare in quel barbaro modo.
Eppure mi sembra che qualcuno abbia detto che “l’uomo deve essere posto al centro del processo produttivo”; ma forse ho capito male io!!

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