mercoledì, febbraio 17, 2010
GIUSTIZIA LUMACA
Il titolo non è mio ma è preso da quanto affermato da due altissimi magistrati – il P.G. ed il Presidente della Cassazione – in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario.
Il Presidente Carbone, prendendo in prestito i dati pubblicati dalla Banca Mondiale, ha lanciato una sorta di lamento sull’agonia della nostra giustizia, affermando che “rimaniamo al 156mo posto – su 180 – nella classifica per la lunghezza dei tempi della nostra giustizia”: non sono posizioni di cui vantarsi e, soprattutto, non sono situazioni in base alle quali si possa rigettare qualunque tentativo di modificare l’iter giudiziario; ho già detto varie volte che se maggioranza ed opposizione non si trovano d’accordo sulle norme da introdurre, prendiamo il sistema di un altro Paese, magari tra i primi dieci in classifica, e portiamolo integralmente in Italia; mi è stato risposto che è troppo semplice, ma potrei ribattere che le cose “giuste” sono quasi sempre le più “semplici”.
L’Alto magistrato ha poi messo il dito nella piaga ed ha affermato – sulla “laboriosità” vantata da giudici e PM - che “in talune realtà territoriali si ha la sensazione che alcuni magistrati impegnino parte delle loro energie a contrastarsi reciprocamente piuttosto che a contrastare la criminalità”; troppo facile l’accostamento di tale frase alle situazioni verificatesi in varie Procure italiane dove si va avanti a forza di “denunce incrociate” tra i vari personaggi di spicco della magistratura locale.
Molto significativa e fortemente emblematica dell’attuale situazione, la frase del Presidente che – dopo avere consegnato la toga a 22 giovani magistrati– ha espresso “tutta la sua perplessità per la partecipazione di giudici a talk show televisivi in cui si ricerca una verità mediatica diversa da quella processuale”.
Ma il signor Presidente può dormire sonni tranquilli: i suoi magistrati hanno trovato un sistema per auto-celebrare il loro “processo corto”: al termine di un paio d’anni di indagini e di una quantità sterminata di intercettazioni telefoniche ed ambientali, inviano una caterva di “avvisi di garanzia” e, in forma pilotata o no, inondano i giornali di fascicoli pieni delle trascrizioni di tali intercettazioni e, mentre aspettano pazientemente che lo sfarfallamento mediatico prepari una sorta di braciere su cui ardere l’onorabilità pubblica di alcuni personaggi, si accingono, con tutta calma, a predisporre gli interrogatori degli indagati, rito che avviene quasi sempre con grossa partecipazione della stampa e della televisione.
Trascorsi alcuni mesi, con il braciere tenuto sempre acceso e rifornito di “notizie dell’ultima ora”, si passa alla fase “vera” delle indagini, fatta di cose concrete e non solo di ricostruzioni di serate più meno piccanti; ma questo, guarda caso, non interessa i media allo stesso modo, cosicché il prosieguo della situazione processuale non ha la stessa notorietà che era stata data alla prima fase; e per finire, “i” o “il personaggio” implicato viene considerato – se non colpevole – almeno sputtanato e quindi emarginato dalla vita pubblica, insieme all’intera famiglia.
Quindi in pochi mesi si è consumato il processo sui media e l’indagato è risultato colpevole; se poi il normale Tribunale la penserà diversamente, pochissimi ricorderanno l’inizio della vicenda e tutta la sua storia: volete un esempio? L’ex deputato e ministro della Repubblica Calogero Mannino, sputtanato da tutto e da tutti e “riabilitato” dalla giustizia, ma soltanto 16 anni dopo l’inizio della sua vicenda. Il primo “processo” è stato breve e si è concluso con il citato sputtanamento che lo ha escluso per sedici anni dalla vita pubblica, mentre il secondo ha avuto esito diverso e lo ha reintegrato: ma chi lo ripaga dei 16 anni trascorsi da “sputtanato”?
Il Presidente Carbone, prendendo in prestito i dati pubblicati dalla Banca Mondiale, ha lanciato una sorta di lamento sull’agonia della nostra giustizia, affermando che “rimaniamo al 156mo posto – su 180 – nella classifica per la lunghezza dei tempi della nostra giustizia”: non sono posizioni di cui vantarsi e, soprattutto, non sono situazioni in base alle quali si possa rigettare qualunque tentativo di modificare l’iter giudiziario; ho già detto varie volte che se maggioranza ed opposizione non si trovano d’accordo sulle norme da introdurre, prendiamo il sistema di un altro Paese, magari tra i primi dieci in classifica, e portiamolo integralmente in Italia; mi è stato risposto che è troppo semplice, ma potrei ribattere che le cose “giuste” sono quasi sempre le più “semplici”.
L’Alto magistrato ha poi messo il dito nella piaga ed ha affermato – sulla “laboriosità” vantata da giudici e PM - che “in talune realtà territoriali si ha la sensazione che alcuni magistrati impegnino parte delle loro energie a contrastarsi reciprocamente piuttosto che a contrastare la criminalità”; troppo facile l’accostamento di tale frase alle situazioni verificatesi in varie Procure italiane dove si va avanti a forza di “denunce incrociate” tra i vari personaggi di spicco della magistratura locale.
Molto significativa e fortemente emblematica dell’attuale situazione, la frase del Presidente che – dopo avere consegnato la toga a 22 giovani magistrati– ha espresso “tutta la sua perplessità per la partecipazione di giudici a talk show televisivi in cui si ricerca una verità mediatica diversa da quella processuale”.
Ma il signor Presidente può dormire sonni tranquilli: i suoi magistrati hanno trovato un sistema per auto-celebrare il loro “processo corto”: al termine di un paio d’anni di indagini e di una quantità sterminata di intercettazioni telefoniche ed ambientali, inviano una caterva di “avvisi di garanzia” e, in forma pilotata o no, inondano i giornali di fascicoli pieni delle trascrizioni di tali intercettazioni e, mentre aspettano pazientemente che lo sfarfallamento mediatico prepari una sorta di braciere su cui ardere l’onorabilità pubblica di alcuni personaggi, si accingono, con tutta calma, a predisporre gli interrogatori degli indagati, rito che avviene quasi sempre con grossa partecipazione della stampa e della televisione.
Trascorsi alcuni mesi, con il braciere tenuto sempre acceso e rifornito di “notizie dell’ultima ora”, si passa alla fase “vera” delle indagini, fatta di cose concrete e non solo di ricostruzioni di serate più meno piccanti; ma questo, guarda caso, non interessa i media allo stesso modo, cosicché il prosieguo della situazione processuale non ha la stessa notorietà che era stata data alla prima fase; e per finire, “i” o “il personaggio” implicato viene considerato – se non colpevole – almeno sputtanato e quindi emarginato dalla vita pubblica, insieme all’intera famiglia.
Quindi in pochi mesi si è consumato il processo sui media e l’indagato è risultato colpevole; se poi il normale Tribunale la penserà diversamente, pochissimi ricorderanno l’inizio della vicenda e tutta la sua storia: volete un esempio? L’ex deputato e ministro della Repubblica Calogero Mannino, sputtanato da tutto e da tutti e “riabilitato” dalla giustizia, ma soltanto 16 anni dopo l’inizio della sua vicenda. Il primo “processo” è stato breve e si è concluso con il citato sputtanamento che lo ha escluso per sedici anni dalla vita pubblica, mentre il secondo ha avuto esito diverso e lo ha reintegrato: ma chi lo ripaga dei 16 anni trascorsi da “sputtanato”?