<$BlogRSDUrl$>

domenica, dicembre 27, 2009

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO 

È la frase che il Presidente del Tribunale antepone alla lettura di ogni sentenza, ad Indicare che quello che verrà dopo, discende da una sorta di sovranità popolare che la Magistratura incarna in virtù del potere relativo che discende dalla Costituzione; in concreto sembrerebbe quasi che il collegio giudicante si ponga in sintonia con “il popolo italiano” e che quindi – legge o non legge – giudichi come ritiene che farebbe l’insieme della gente del Paese interessato.
Ma la frase incriminata è anche il titolo di un film girato quasi quaranta anni fa dal regista Dino Risi, che narra la vicenda di un giudice – frustrato dalla vita, dalle vicende familiari e dalla consapevolezza dell’impotenza della legge nei confronti dei “ricchi prepotenti” – che si trova ad indagare sulla morte sospetta di una ragazzina, nella quale pare implicato uno che potrebbe rappresentare lo stereotipo del “nemico del giudice”, tale ingegnere Santenocito.
Ebbene, al termine della narrazione, che vede continui scontri tra le due personalità (cialtronesco e fascistoide l’ingegnere; modesto ma intelligente, il giudice), si assiste ad un episodio sconcertante: quando il magistrato è pronto a rinviare a giudizio il Santenocito, spunta fuori una prova che scagiona inequivocabilmente il sospetto; ebbene, il giudice distrugge la prova dell’innocenza e – convinto di fare una cosa utile per “il popolo italiano” – incrimina l’antipatico personaggio. Il tutto, ovviamente, “in nome del popolo italiano”: chi non l’avesse visto lo cerchi in DVD perché ritengo che valga la pena vederlo, anche in considerazione del fatto che tale tematica è già presente nell’Italia del 1971, data di realizzazione del film.
In sostanza la tematica del film di Risi – che si è avvalso di due stupende interpretazioni (Gassman nei panni del Santenocito e Tognazzi in quelli del giudice) – si chiede se un magistrato deve amministrare giustizia secondo i propri “modi di vedere” oppure seguendo i dettami della legge e della procedura; e nel caso riportato sullo schermo da Risi, il giudice decide di “interpretare” la realtà in base a quello che, secondo lui, sarebbe la cosa che “fa bene al popolo italiano” e, sulla base di tale convincimento, avviare al processo l’innocente, ma antipatico, Santenocito.
Ma questo è un film, un’opera di fantasia, e quindi mi chiedo: quale rispondenza con la realtà possa avere. Ed ecco una prima risposta che mi perviene dalla lettura di un libro del 2004 dal titolo “La toga Rossa”, scritto a due mani dal Giudice Francesco Misiani e dal giornalista Carlo Bonini.
In questo libro – assai interessante per rileggere il periodo a cavallo degli anni ’70 – si apprende, in forma chiarissima, come un manipolo di giudici, fra i quali lo stesso Misiani, aderenti all’ala massimalista di Magistratura Democratica, teorizzassero che la giustizia era “borghese”, quindi da abbattere insieme alla classe da cui proveniva; e per fare questo non si sono fatti scrupolo di “adattare” le leggi e le procedure a questa sorta di teorema. Dice Misiani – e cito testualmente – “non posso negare che nelle mie decisioni di allora, e parlo delle mie decisioni di giudice, non abbia influito, e molto, la mia ideologia. Se proprio dovevo condannare, condannavo al minimo e poi mettevo fuori quasi subito; ma, ripeto, avevamo di fronte un esercito di miserabili che ritenevamo ingiusto condannare in nome di una giustizia di classe, cui erano regolarmente estranei i soggetti forti; sulle ragioni giuridiche facevano aggio (cioè erano più importanti) quelle di carattere sociale”. Che dire? Forse è meglio che i giudici modifichino l’allocuzione iniziale in “secondo me”; e lascino fare il “popolo”; chiaro??

This page is powered by Blogger. Isn't yours?