venerdì, settembre 18, 2009
ANCORA SANGUE ITALIANO IN AFGHANISTAN
Questa volta il tributo di sangue è stato molto grande: 6 morti e 4 feriti (gravi anche se non in pericolo di vita); il “solito” kamikaze, disposto a barattare la propria vita con quella di altri che neppure conosce, ha scaraventato contro un convoglio di automezzi “lince”, un furgone carico di qualche centinaio di chili di esplosivo ed è riuscito ad inserirsi tra due automezzi, distruggendone uno e danneggiando fortemente l’altro.
Il nostro è un paese strano: pensate che si continua a sentire frasi del tipo “bisogna prendere atto che siamo in guerra” e cose del genere; ma come, ancora non l’abbiamo capito che in Afghanistan si sta combattendo una guerra – magari “non convenzionale”, cioè senza divise – e che questa guerra vede gli eserciti NATO impegnati contro civili combattenti (talebani ed altri alleati) che vogliono cacciare questi eserciti ritenuti invasori; da notare che neppure Alessandro il Grande riuscì a sconfiggere questa gente.
Ma torniamo un passo indietro e chiediamoci cosa ci facciamo in quel paese: teoricamente la missione NATO, richiesta dall’ONU, è una “operazione di pace”, motivata – ed ecco l’ipocrita formula coniata dall’amministrazione Bush – dalla necessità di “esportare la democrazia in quel paese”.
Ora, mi sembra chiaro e mi sono stufato anche di ripeterlo, che gli eserciti NATO, tra cui quello italiano, non sono in Afghanistan per una missione di pace ma – pur svolgendo anche opera di pacificazione tra quella gente – sono lì per tutelare precisi interessi economici dell’occidente; se accettiamo questo principio, accettiamo anche la dolorosa perdita di nostri ragazzi: sappiamo bene che in guerra il soldato ha grosse probabilità di morire.
Comunque, se analizziamo le cifre, vediamo che i morti in missioni “cosiddette di pace” sono molto meno di quelli “sul lavoro”; e se permettete – so di non essere simpatico dicendo questo – provo più pietà per l’operaio caduto dall’impalcatura che guadagna un terzo di quanto percepisce un soldato in missione all’estero.
Ma lasciamo perdere queste graduatorie del dolore umano, e torniamo all’origine della missione in Afghanistan: come ho detto sopra, l’amministrazione Bush ebbe a coniare la frase “esportiamo la democrazia”, autentica fesseria, almeno per due grossi motivi: il primo è che qualunque democrazia nasce soltanto se è ”fortemente voluta e sanguinosamente ricercata” dall’interno del paese in questione; solo la gente che vi abita può decidere che il sistema politico occidentale è meglio del proprio e quindi lottare per averlo; credere che questo possa essere portato dall’esterno “sulla punta delle baionette”, è follia, anzi peggio, è un prenderci in giro, perché sappiamo bene che alla base c’è solo la difesa o la conquista di enormi interessi economici.
Il secondo motivo è anch’esso ovvio: perché si va ad esportare la democrazia solo in paesi che hanno grandi potenzialità economiche in termini di materie prime? E non si va a fare le stesse cose in luoghi dove queste potenzialità non esistono?
Quindi, non prendiamoci in giro e cominciamo a chiamare le cose con il loro nome: stiamo combattendo una guerra sanguinaria e difficile perché il nemico si rende invisibile ed appare all’improvviso; ma almeno questo conflitto viene combattuto da “professionisti della guerra” e non da semplici “richiamati” come si faceva in un passato non tanto remoto, sia in Italia che nel resto del mondo..Ecco, questa è l’unica consolazione, in una giornata di grande mestizia e di dolore umano per i sei ragazzi che ci hanno lasciato e per le loro famiglie; chiaro il concetto?
Il nostro è un paese strano: pensate che si continua a sentire frasi del tipo “bisogna prendere atto che siamo in guerra” e cose del genere; ma come, ancora non l’abbiamo capito che in Afghanistan si sta combattendo una guerra – magari “non convenzionale”, cioè senza divise – e che questa guerra vede gli eserciti NATO impegnati contro civili combattenti (talebani ed altri alleati) che vogliono cacciare questi eserciti ritenuti invasori; da notare che neppure Alessandro il Grande riuscì a sconfiggere questa gente.
Ma torniamo un passo indietro e chiediamoci cosa ci facciamo in quel paese: teoricamente la missione NATO, richiesta dall’ONU, è una “operazione di pace”, motivata – ed ecco l’ipocrita formula coniata dall’amministrazione Bush – dalla necessità di “esportare la democrazia in quel paese”.
Ora, mi sembra chiaro e mi sono stufato anche di ripeterlo, che gli eserciti NATO, tra cui quello italiano, non sono in Afghanistan per una missione di pace ma – pur svolgendo anche opera di pacificazione tra quella gente – sono lì per tutelare precisi interessi economici dell’occidente; se accettiamo questo principio, accettiamo anche la dolorosa perdita di nostri ragazzi: sappiamo bene che in guerra il soldato ha grosse probabilità di morire.
Comunque, se analizziamo le cifre, vediamo che i morti in missioni “cosiddette di pace” sono molto meno di quelli “sul lavoro”; e se permettete – so di non essere simpatico dicendo questo – provo più pietà per l’operaio caduto dall’impalcatura che guadagna un terzo di quanto percepisce un soldato in missione all’estero.
Ma lasciamo perdere queste graduatorie del dolore umano, e torniamo all’origine della missione in Afghanistan: come ho detto sopra, l’amministrazione Bush ebbe a coniare la frase “esportiamo la democrazia”, autentica fesseria, almeno per due grossi motivi: il primo è che qualunque democrazia nasce soltanto se è ”fortemente voluta e sanguinosamente ricercata” dall’interno del paese in questione; solo la gente che vi abita può decidere che il sistema politico occidentale è meglio del proprio e quindi lottare per averlo; credere che questo possa essere portato dall’esterno “sulla punta delle baionette”, è follia, anzi peggio, è un prenderci in giro, perché sappiamo bene che alla base c’è solo la difesa o la conquista di enormi interessi economici.
Il secondo motivo è anch’esso ovvio: perché si va ad esportare la democrazia solo in paesi che hanno grandi potenzialità economiche in termini di materie prime? E non si va a fare le stesse cose in luoghi dove queste potenzialità non esistono?
Quindi, non prendiamoci in giro e cominciamo a chiamare le cose con il loro nome: stiamo combattendo una guerra sanguinaria e difficile perché il nemico si rende invisibile ed appare all’improvviso; ma almeno questo conflitto viene combattuto da “professionisti della guerra” e non da semplici “richiamati” come si faceva in un passato non tanto remoto, sia in Italia che nel resto del mondo..Ecco, questa è l’unica consolazione, in una giornata di grande mestizia e di dolore umano per i sei ragazzi che ci hanno lasciato e per le loro famiglie; chiaro il concetto?