martedì, luglio 14, 2009
IL MILITARE ITALIANO MORTO IN AFGHANISTAN
E’ di poco fa la notizia della morte di un militare italiano facente parte del contingente “di pace” di stanza in Afghanistan; non ho notizie complete dell’evento, ma dalle prime voci, sembra che si tratti del solito agguato nel quale è incappata una nostra pattuglia: uno di loro, un Vicecaporale originario di Campobasso non ce l’ha fatta, nonostante il pronto ricovero nel nostro Ospedale militare.
Purtroppo sono stato facile profeta quando – un po’ di tempo addietro – segnalai su queste pagine la rottura di quella sorta di “armistizio” che era in atto tra le nostre truppe e quelle dei “ribelli” (“noi non controlliamo a fondo e voi non ci sparate”); la frattura era nata per l’uccisione di una ragazzina dodicenne di origine talebana, avvenuta per mano di un nostro mitragliere ad un posto di blocco: da allora, gli attacchi agli italiani si sono moltiplicati e, almeno all’inizio, avevano fatto segnare solo lievi ferite, ma era facile prevedere che prima o poi si sarebbe arrivati al morto.
Ma questo giovane – solo 24 anni – è forse morto “per difendere il sacro suolo italiano”? Assolutamente no! È morto in un posto lontano le fatidiche mille miglia da casa sua, in un conflitto – non dichiarato – con delle truppe “ribelli” che rappresentano (almeno a sentir loro) il vero Afghanistan, con le sue tradizioni e la sua vitalità, quella stessa vitalità che non tantissimi anni addietro ebbe a sconfiggere nientemeno che il poderoso esercito russo, sceso in forze per appoggiare un “governo amico”.
Ma, mi raccomando, non si parli di guerra, perché l’iniziativa della quale fa parte il nostro contingente si chiama “missione di pace” e non “di guerra”: chiaro il concetto?
Infatti, dopo il secondo conflitto mondiale, il termine guerra – presso le opinioni pubbliche occidentali – divenne “il tabù dei tabù”, per un duplice ordine di motivi: il primo è il ricordo degli oltre 50 milioni di morti di quel conflitto e il secondo fu l’avvento della bomba atomica, il cui spauracchio, facendo intravedere la possibilità di una distruzione totale, indusse i governi di tutto il mondo a non prendere più in considerazione l’opzione bellica.
Ma l’interventismo è un elemento che fa parte del DNA di tutti i governi, per cui in un certo momento siamo passati a “intervenire, per motivi umanitari” nelle guerricciole altrui (vedi Jugoslavia); e con l’avvento dell’11 settembre, gli americani si sono messi alla testa di una serie di “crociate” in giro per il mondo (Iraq, Afghanistan) nelle quali sono continuate le morti di soldati che, con quella situazione internazionale, non avevano niente da spartire, anzi – in molti casi – neppure ne conoscevano la pericolosità per il cosiddetto “Mondo libero”.
I nostri governi, sia di centro destra che di centro sinistra, hanno sempre aderito a queste iniziative belliche, in quanto hanno permesso alle nostre aziende di “fare buoni affari” in sede di ricostruzione oppure di partecipare alla spartizione di qualche fonte energetica; poi se qualche soldato ci rimetteva la pelle, pazienza, il tutto faceva parte del mestiere – peraltro ben retribuito – e quindi nessuno aveva da recriminare.
E si badi bene che, nella totalità dei casi, si tratta di guerre in cui le due parti non sono paritarie, ma anzi sono grandemente asimmetriche: da una parte (la nostra, per intendersi) c’è tutto l’armamento e la tecnologia che l’industria attuale mette a disposizione, mentre dall’altra c’è quello che possono “comperare” – sempre da noi - ma non certo dell’ultima generazione degli armamenti.
Sono guerre quindi che niente hanno di “eroico” ma che si riducono a sbrogliare situazioni nelle quali il mondo capitalistico ha forti interessi di bottega; chiaro?!
Purtroppo sono stato facile profeta quando – un po’ di tempo addietro – segnalai su queste pagine la rottura di quella sorta di “armistizio” che era in atto tra le nostre truppe e quelle dei “ribelli” (“noi non controlliamo a fondo e voi non ci sparate”); la frattura era nata per l’uccisione di una ragazzina dodicenne di origine talebana, avvenuta per mano di un nostro mitragliere ad un posto di blocco: da allora, gli attacchi agli italiani si sono moltiplicati e, almeno all’inizio, avevano fatto segnare solo lievi ferite, ma era facile prevedere che prima o poi si sarebbe arrivati al morto.
Ma questo giovane – solo 24 anni – è forse morto “per difendere il sacro suolo italiano”? Assolutamente no! È morto in un posto lontano le fatidiche mille miglia da casa sua, in un conflitto – non dichiarato – con delle truppe “ribelli” che rappresentano (almeno a sentir loro) il vero Afghanistan, con le sue tradizioni e la sua vitalità, quella stessa vitalità che non tantissimi anni addietro ebbe a sconfiggere nientemeno che il poderoso esercito russo, sceso in forze per appoggiare un “governo amico”.
Ma, mi raccomando, non si parli di guerra, perché l’iniziativa della quale fa parte il nostro contingente si chiama “missione di pace” e non “di guerra”: chiaro il concetto?
Infatti, dopo il secondo conflitto mondiale, il termine guerra – presso le opinioni pubbliche occidentali – divenne “il tabù dei tabù”, per un duplice ordine di motivi: il primo è il ricordo degli oltre 50 milioni di morti di quel conflitto e il secondo fu l’avvento della bomba atomica, il cui spauracchio, facendo intravedere la possibilità di una distruzione totale, indusse i governi di tutto il mondo a non prendere più in considerazione l’opzione bellica.
Ma l’interventismo è un elemento che fa parte del DNA di tutti i governi, per cui in un certo momento siamo passati a “intervenire, per motivi umanitari” nelle guerricciole altrui (vedi Jugoslavia); e con l’avvento dell’11 settembre, gli americani si sono messi alla testa di una serie di “crociate” in giro per il mondo (Iraq, Afghanistan) nelle quali sono continuate le morti di soldati che, con quella situazione internazionale, non avevano niente da spartire, anzi – in molti casi – neppure ne conoscevano la pericolosità per il cosiddetto “Mondo libero”.
I nostri governi, sia di centro destra che di centro sinistra, hanno sempre aderito a queste iniziative belliche, in quanto hanno permesso alle nostre aziende di “fare buoni affari” in sede di ricostruzione oppure di partecipare alla spartizione di qualche fonte energetica; poi se qualche soldato ci rimetteva la pelle, pazienza, il tutto faceva parte del mestiere – peraltro ben retribuito – e quindi nessuno aveva da recriminare.
E si badi bene che, nella totalità dei casi, si tratta di guerre in cui le due parti non sono paritarie, ma anzi sono grandemente asimmetriche: da una parte (la nostra, per intendersi) c’è tutto l’armamento e la tecnologia che l’industria attuale mette a disposizione, mentre dall’altra c’è quello che possono “comperare” – sempre da noi - ma non certo dell’ultima generazione degli armamenti.
Sono guerre quindi che niente hanno di “eroico” ma che si riducono a sbrogliare situazioni nelle quali il mondo capitalistico ha forti interessi di bottega; chiaro?!