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martedì, marzo 03, 2009

WELFARE 

Usiamo spesso il termine di cui al titolo e quindi vediamo anzitutto il suo esatto significato:è la traduzione di due parole inglesi abbinate, welfare state (stato di benessere tradotto letteralmente), conosciuto anche come Stato assistenziale o Stato sociale, il cui significato finale consiste in un sistema di norme con il quale lo Stato cerca di eliminare le disuguaglianze sociali ed economiche fra i cittadini, aiutando in particolar modo i ceti meno abbienti, cioè coloro che hanno più bisogno.
In questi ultimi tempi la parola è sulla bocca di tutti e viene citata nelle discussioni inerenti la crisi finanziaria ed economica che tutto il mondo sta vivendo (vedi anche il mio post di ieri): le borse vanno a picco perché la più grande società di assicurazioni mediche degli USA viene vista in pericolo a causa della ventilata riforma sanitaria di Obama? Ebbene, anche il carrozziere sotto casa mia ne risente e licenzia un operaio.
Lasciamo fare l’assurdità del legame tra associazioni sanitarie e carrozzieri, ma vediamo come possiamo aiutare il nostro operaio messo a casa: anzitutto abbiamo un fondo di garanzia che per un certo tempo (non conosco quanto) fornisce una sorta di indennità pari ad una percentuale (credo il 70 o 80%) dell’ultimo stipendio; ovviamente se l’operaio proviene da una Agenzia per la Fornitura del lavoro, con un contratto a termine, nessuno gli rimborsa niente, né l’Agenzia e neppure l’INPS,
E torniamo al “welfare”: per ovviare alla situazione sopra ipotizzata, bisognerebbe avere un capitolo di spesa relativo a tali casi; non c’è perché non c’è più un bottone, dopo che il welfare è stato prosciugato dalla fetta “pensionistica”; ed eccoci al vero problema: il bilancio dell’INPS amministra e distribuisce le pensioni di anzianità e di vecchiaia; ebbene, questo capitolo si mangia il 75% (cioè due terzi) del bilancio dell’Ente, mentre nel restante 25% si ammassano provvidenze di varia natura e di vario genere.
In sostanza si tratta di una coperta corta che se viene tirata in basso scopre la testa e se la tiriamo in alto scopre i piedi; e infatti, questo lavoro di tira e molla è già cominciato: riprendiamo in mano la situazione delle pensioni e cominciamo ad equiparare l’età pensionabile delle donne con quella degli uomini.
Ammesso e non concesso che si possa verificare una maggiore disponibilità di risorse “a breve”, avremo sicuramente contro tutta la classe femminile e, non ultimi, anche i sindacati che le rappresentano.
Ma voglio aggiungere di più: se mandiamo le donne in pensione, dall’attuale soglia di 58 o 60 anni, a quella di 65 anni come gli uomini, il potenziale “turn-over”, cioè la sostituzione di mano d’opera pensionata, verrebbe a scomparire e non avrei fatto proprio un bel servizio alla nipote della signora sessantenne trattenuta al lavoro.
Perché anche in questo caso si tratta di aggiustare una coperta che non ha dimensioni smisurate: se manteniamo la donna in servizio, le verrà data la pensione con ritardo, ma la citata nipote che avrebbe dovuto sostituirla, non trova lavoro e quindi lo Stato dovrà in qualche modo assisterla.
Volere coprirsi con la coperta che abbiamo adesso e che probabilmente la crisi in atto farà diventare più corta, mi sembra una mossa avventata, sulla quale riflettere bene ed a lungo; tutti mi dicono che nel resto d’Europa la soglia per la pensione è uguale per uomini e donne e siamo solo noi ad essere diversi: d’accordo nel rivedere il tutto, ma è questo il momento giusto per prendere delle decisioni che poi ci tireremo dietro per qualche decennio?

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