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lunedì, gennaio 05, 2009

LE PAROLE SONO IMPORTANTI 

Le oltre mille persone che sono arrivate sull’Isola di Lampedusa nelle ultime settimane, mi hanno ridestato un problema, solo in apparenza linguistico ma di fatto assai importante per questi disgraziati che riescono ad approdare ed anche per coloro che li accolgono, o meglio, li subiscono.
Quante parole sono state usate per definire gli immigrati? Tantissime, direi quasi troppe; una volta erano i vulavà o i vucumprà, ma per fortuna questi due termini sono andati in disuso fino ad essere quasi cancellati; cosa c’è rimasto? Abbiamo la possibilità di scegliere tra clandestini, extracomunitari, rom-rumeni, sinti, negri (o neri), islamici, marocchini; insomma, come potete vedere, c’è una vasta gamma di espressioni che a volte viene usata anche a sproposito.
Il primo termine che cito – extracomunitari – è passato un po’ di moda, visto che i rom, i rom-rumeni, i sinti-rumeni e i romeni, sono diventati “comunitari” da quando la Romania è entrata a far parte dell’Europa.
Adesso il termine più usato è “clandestini” che sembra fare riferimento a qualcuno che si sottrae alla legge e alle forze dell’ordine, una persona che si nasconde, di fatto un criminale (secondo le leggi vigenti) a causa della sua sola esistenza; se mi permettete un paragone che so benissimo essere blasfemo, direi che anche i gloriosi partigiani possono essere considerati dei “clandestini”.
Ma quand’è che una persona diventa un clandestino? Quando arriva sul sacro suolo della Patria senza chiedere permesso? Ma forse, non lo chiede perché tanto non glielo darebbero! O forse è considerato clandestino anche colui al quale è scaduto il permesso di soggiorno? In effetti è proprio così: uno può lavorare per anni in Italia usufruendo dei permessi di soggiorno e trovarsi ad un certo punto nell’impossibilità di rinnovare l’ultimo documento ricevuto, per qualche ragione (malattia o altro); così il soggetto diventa clandestino ed è responsabile di una serie di reati punibili anche con il carcere, tra cui quello di essere un clandestino: ragionamento kafkiano ma che non fa una grinza!
Ci sono poi tutte le persone di cui parlavamo all’inizio, cioè coloro che arrivano in barca nel nostro paese: quelli che approdano sono subito etichettati come clandestini, ma anche coloro che non ce la fanno ed i cui corpi rimangono in fondo al mare, sono definiti clandestini; pensate che – traggo da un articolo del “Corriere della Sera” - “….Una motovedetta ha recuperato sei cadaveri in mare, a 50 miglia da Lampedusa; fanno parte del gruppo di 14 corpi di clandestini individuati da un aereo della Marina”; in realtà, questi clandestini avevano solo cercato di avvicinarsi alle nostre coste ma purtroppo per loro sono morti nel tentativo di diventarlo; erano solo “clandestini potenziali” e non sono neppure riusciti a ottenere lo status che desideravano tanto.
Mi sembra ovvio che, almeno fino a quando questi “signori stranieri” non arrivano sul suolo italiano, sia i giornalisti che i politici farebbero meglio a dar loro la possibilità di essere unicamente delle persone: africani, probabilmente, o “migranti”, del resto l’immigrazione – al contrario della clandestinità – ha una lunga e nobile tradizione.
Insomma, potremmo almeno cercare di umanizzare la morte di questi disperati, ma il punto è che questi signori debbono rimanere senza faccia, senza identità, senza nome, perché è molto più facile discriminare una categoria (i clandestini) invece di un qualcuno che ha un nome, una famiglia, una storia personale, insomma è – al pari nostro – un essere umano. Chiaro il concetto??

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