giovedì, marzo 20, 2008
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Durante la “Settimana del Cinema” che ho tenuto in un Liceo di Taormina, ho presentato – fra gli altri – “In Nome del popolo italiano”, film realizzato nel 1971 da Dino Risi e interpretato da due mattatori del nostro schermo, Gassman. e Tognazzi.
In questa opera, un giudice – chiaramente di sinistra ed “impegnato” – decide di eliminare alcune prove a discolpa per mandare sotto processo un archetipo della società malata che lo stesso magistrato odia e combatte: un industriale mestatore, dedito all’intrallazzo e senza alcuno scrupolo pur di arricchirsi; e questa azione del giudice avviene – secondo l’assunto tematico del regista – in nome del popolo italiano, in quanto la legge, da sola, non è in grado di tutelare la gente comune e quindi, in buona sostanza, quel popolo in nome del quale si giudica e si condanna o si assolve.
Ho fatto questo lungo preambolo per riferirmi alla vicenda del giovane ubriaco che ha falciato ed ucciso due ragazze irlandesi che passeggiavano tranquillamente per Roma: l’investitore, dopo essere fuggito e quindi non avere prestato il minimo soccorso alle ragazze, che peraltro sono morte sul colpo, veniva arrestato dai Vigili della capitale e tradotto nelle patrie galere, dove però il GIP (Giudice per le indagini preliminari) lo teneva il tempo necessario per rilasciare le proprie generalità e gli concedeva subito gli arresti domiciliari.
Probabilmente il GIP esaudirà tutti questi desideri concomitanti, ma non è detto; se, per caso, la norma prevede il carcere solo in determinate circostanze, può darsi anche che tutte queste richieste non vengano esaudite e quindi, che la legge sia in solenne disaccordo con il “popolo italiano” ed anche – è qui sta il bello – con la famiglia e lo stesso colpevole.
Ed ecco che si torna a parlare del film di Risi: in quel caso – non è realtà, ma solo finzione cinematografica per esprimere un’idea – un giudice modifica una situazione e la utilizza in sintonia con quello che lui ritiene essere il desiderio del popolo.
Questo è il problema: se il giudice o comunque il singolo magistrato si allontana dall’osservanza della legge per seguire quello che “egli ritiene” essere il desiderio della gente, si arriva ad una legge che diventa una personalistica espressione di liceità, nel senso cioè che per il giudice “X” la volontà del popolo è questa, mentre per il magistrato “Y” è quest’altra. Quindi, l’amministrazione della giustizia diventa un personalistico uso della legge e non esiste più quello che i giuristi chiamano la certezza della norma.
Ma poiché la legge la fa il politico, ecco subito trovato colui che deve farsi tramite con il popolo e modificare la norma secondo i desideri e le aspettative della gente.
Questo perché, se da un lato la legge può ragionevolmente “invecchiare” ed essere specchio solo del suo tempo, gli umori della gente mutano con il passare degli anni e quindi sono queste istanze alle quali il politico deve riferirsi e travasarle in proposte di legge; ma se questa operazione richiede un tempo “biblico”, come ad esempio l’approvazione del nuovo Codice di Procedura Civile e Penale, va a finire che la sua entrata in vigore avviene quando ormai il “sentire della gente” è già un altro; e questo rincorrersi non fa bene né alla politica né alla legge!!