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sabato, dicembre 15, 2007

MA SIAMO DAVVERO COSI' TRISTI ? 

Proprio in occasione della visita del Presidente Napolitano negli U.S.A., il New York Times ci ha descritti come un popolo triste, il più triste d’Europa, un popolo che ha abdicato agli stereotipi cari agli stranieri di “sole, mandolino e ammore (con 2 emme)” per ripiegarsi in se stesso e intristire; ricorderete che anni addietro ci fu tolto lo scettro del “latin lover”, in quanto una “giuria” di donne straniere ci avevano tolto il primato per darlo, mi pare, agli inglesi: in quell’occasione ebbi a citare un detto del nostro Sud, secondo il quale “’a minchia non vole pensieri”.

Vogliamo provare a ricercare il processo che ci ha condotto a questa situazione? Allora, cominciamo col dire che il nostro Belpaese, così detto sia per le bellezze paesaggistiche che per quelle architettoniche ed artigianali, ha subito negli ultimi dieci/quindici anni una serie di attentati: le cementificazione e le infrastrutture hanno ucciso il paesaggio, mal tutelato da coloro che vi erano preposti; il turismo di massa ha reso invivibili le nostre città d’arte e la standardizzazione industriale – figlia della globalizzazione – ha distrutto il nostro artigianato.

Sotto il profilo della sociologia, la ricerca incosciente della omologazione ci ha trasformati in un indistinto ceto medio, arrivista, volgare, rancoroso e sostanzialmente violento: vi sarà capitato di frequentare un Bar, un Negozio o comunque un posto dove si raduna parecchia gente, in occasione di un efferato delitto; ebbene, non ci limitiamo ad invocare la pena di morte come unica panacea contro “questi delinquenti”, ma suggeriamo addirittura al boia alcuni accorgimenti per far patire maggiormente il condannato.

Abbiamo poi acquisito tutta una serie di status symbol che ci caratterizzano, anche secondo il ceto sociale di appartenenza: il più rilevante e più sfacciato è l’uso sconsiderato del cellulare (140 abbonamenti ogni 100 abitanti in Italia), laddove il più nuovo e il più dotato di accessori è sinonimo di maggior potere (economico).

C’è poi l’uso dell’auto e qui dobbiamo soffermarci un attimo: si fa un bel dire che in Italia il 30% delle famiglie non arriva alla quarta settimana del mese, ma se ci affacciamo al balcone e osserviamo il traffico che scorre, vediamo transitare una quantità enorme di auto che sfiorano (o superano) i vecchi 100milioni di una volta: mi riferisco ai SUV, nati con uno scopo diverso da quello di viaggiare in città e diventati invece un altro status symbol, ancora più accentuato se ci facciamo viaggiare la moglie per andare a fare spese e diamo così l’impressione che il compagno abbia un altro mezzo di valore ancora superiore.

E poi, tra le cose immancabili per tutti, ricchi, meno ricchi, quasi poveri, giovani, vecchi, bambini ecc. c’è la “griffe”, l’etichetta o il logo da esibire sui capi di abbigliamento o su altre cose che si usano: una volta i “veri ricchi” si rifiutavano categoricamente di indossare capi di vestiario che portassero delle etichette (“se vuoi che ti faccia pubblicità, pagami”) adesso che non abbiamo più questa alterigia ma invece desideriamo farci identificare come “persone che possono”, ostentiamo la griffe che sottace il prezzo che ci è costato l’indumento, anche se non riporta il grado di eleganza del capo da noi indossato, ma questo non ci interessa, perché il nostro senso estetico si ferma a quello che ci insegna la televisione ed è tutto dire….

Quindi, caro Presidente, dobbiamo concludere che il N.Y.T. ha abbastanza ragione a dipingerci in quel modo e se lei non lo accetta – a parte la doverosa difesa d’ufficio – significa che dal suo alto scranno poco vede e poco conosce di questa Italia.


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