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giovedì, novembre 08, 2007

DUE CASI 

L’irrompere dei fatti di cronaca mi “costringono” a tornare su un argomento che ho già affrontato un paio di volte: la soluzione escatologica dell’esistenza, in parole povere il problema dei suicidi, della scelta di un “mondo migliore”.

I casi specifici sono due, assai dissimili tra loro per estrazione socio-antropologica dei protagonisti e per le condizioni oggettive nei quali si sono svolti.

Il primo ha per protagonista una ragazzina di 14 anni, residente alle porte di Perugia, figlia di una coppia borghese, che abita con la nonna; è proprio lei la persona che l’ha vista per ultima, mentre stava uscendo di casa per andare a scuola: le ha chiesto di prepararle il pesce per pranzo ed è uscita; arrivata in strada è rientrata di nascosto nell’appartamento e l’ha fatta finita, in un modo strano, barbaro ed assurdo: si è legata un foulard fucsia al collo e si è lasciata andata da un termosifone. L’ha scoperta la nonna che ha cercato di rianimarla, di toglierle quell’inutile e devastante sciarpetta ed ha poi chiamato il 118, ma non c’è stato niente da fare.

La ragazza – che chiameremo convenzionalmente Francesca – ha lasciato un biglietto in cui “ha spiegato il suo gesto”, ammesso che una cosa del genere possa essere spiegata: “Mi dispiace non godermi la vita, che va goduta come avrei potuto fare. Che va goduta in tutti i suoi aspetti: la musica, i ragazzi. Mi dispiace. Scusatemi”.

Cosa avrà voluto dire? Forse nel suo modo criptico ha lanciato un segnale che è valido per ognuno di noi e che potrà essere valutato in maniera difforme a seconda del destinatario: gli amici ripenseranno alle cose fatte insieme e non realizzate; il fidanzatino – se c’era – sarà a chiedersi in cosa ha sbagliato; i genitori, la famiglia, avrà certamente il compito più difficile, quello di non aver capito il dramma che stava vivendo una giovanissima ancora incosciente delle cose della vita e già decisa a compiere un’azione così definitiva.

I “non più giovani” come me si chiederanno se valeva la pena intraprendere tutte le lotte che sono state fatte in passato per lasciare un mondo del genere e quindi si avvieranno a completare la loro vita con un’amarezza in più.

Il secondo caso ha come protagonista un uomo di 67 anni, un pensionato, ex consigliere comunale per il P.C.I. negli anni ‘70 (allora si chiamava così); si è reso conto di non farcela a campare con la propria pensione e, in particolare, a pagare i 300 euro che gli chiedeva il padrone di casa per l’affitto.

E così si è recato di prima mattina, mentre era ancora scuro, in prossimità di un cavalcavia e da lì si è portato sui binari ferroviari aspettando l’arrivo del primo treno che è giunto qualche minuto dopo le sei e lo ha investito in pieno.

Il disagio del pensionato – acuito in modo esponenziale, ritengo io, da una qualche cedenza psicologica – non era stato notato da nessuno dei conoscenti che frequentava o forse, qualche uscita che magari rivelava malessere, non era stata presa nella giusta considerazione.

Un uomo solo,dunque, un uomo che aveva vissuto una vita “completa” – dal lavoro all’impegno politico – un uomo che evidentemente aveva finito il carburante ed ha così preferito scendere dall’auto e imbarcarsi su un altro mezzo.

Come avete visto, ci siamo imbattuti in due casi che testimoniano anzitutto il disagio che questo nostro mondo provoca specialmente nei più deboli e poi abbiamo dovuto rimarcare che, di fronte alla sofferenza interiore, ognuno di noi è solo, ma così solo che non trova rifugio in niente che non sia un sogno, una speranza, un’illusione: appunto, l’aldilà!


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