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giovedì, agosto 24, 2006

SMETTIAMO DI PARLARE DI INTEGRAZIONE 

Un amico – non lo conosco personalmente, ma il semplice fatto che legga i miei post me lo fa considerare tale – ha commentato un mio intervento sull’integrazione degli extracomunitari, affermando, testualmente “…ci sono milioni di immigrati che lavorano come bestie qui per farci comprare i pelati a 2 lire…”.
Ho trovato tanto interessante e calzante questo commento che ho deciso di utilizzarlo come protagonista del mio attuale post; dobbiamo fare, però, un piccolo passo indietro, a quando io, più volte, ho denunciato che l’arrivo di questi disgraziati rappresenta nient’altro che una forma surrettizia di “schiavismo”: e mi spiego.
In piena globalizzazione, dove l’imperativo principale è quello di far costare poco alcuni prodotti per renderli similari – almeno economicamente – a quelli prodotti da paesi sottosviluppati, si è colpito principalmente il famigerato costo del lavoro, abbassandolo in maniera talmente violenta che i lavoratori italiani non lo hanno più accettato.
A questo punto si doveva trovare chi sostituisse – per le classiche due lire – i nostri lavoratori (braccianti, manovali, ecc) e, anziché partire con un veliero e bordeggiare le coste dell’Africa alla ricerca di giovani da catturare come schiavi, abbiamo preferito aspettare che questi venissero da soli, allettati da immagini di città opulente, piene di vetrine ricolme di lustrini e di cose buone, di cibi prelibati e di bei vestiti da indossare.
L’immagine di una sedia, si sa, non è una sedia, così come l’immagine delle nostre città non è la realtà che c’è nelle nostre città; ormai però il passo è stato fatto, la traversata effettuata, lo sbarco anche, documenti o non documenti, i disgraziati sono nella sospirata Italia e si ritrovano….a raccattare pomodori nelle assolate campagne del napoletano, con dei salari appena sufficienti a sopravvivere.
Se questo spaccato è vero – ed è vero, dovete concedermelo – come si può ragionare di “integrazione” e di altre balle del genere; anzitutto questi poveretti arrivano da noi e fanno la fame, non hanno gli stessi diritti dei nostri operai, non hanno voce in capitolo in niente che li riguardi.
E poi, “grande madre di tutte le diversità”, c’è la differenza religiosa che per alcuni di loro – quelli mussulmani – ha la preminenza su ogni altra forma impositiva; la religione impone il velo e lo Stato vorrebbe le donne a viso scoperto? La religione ha ragione e lo Stato torto; come possono comprendere che la religione qui da noi dice altre cose e che queste sono in sintonia con quelle sostenute dallo Stato? Forse i figli dei figli, forse i figli dei figli dei figli: insomma dobbiamo arrivare almeno alla terza generazione nata in Italia per riuscire a intendersi dando il giusto rispetto alle religioni – ma solo il rispetto!! – e seguendo invece i principi che lo Stato, cioè tutti noi, emana per la convivenza civile di tutta la gente.
Qualcuno mi dirà che in mezzo a loro c’è una minoranza abbastanza importante che riesce a condurre una vita che – almeno sotto il profilo materiale – è molto simile alla nostra: dovremmo esaminare queste situazioni caso per caso e ci troveremmo di fronte a grosse, grossissime sorprese, non tutte piacevoli, perché nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di gente che ha optato per la delinquenza (droga, prostituzione, terrorismo, ecc) ed allora ha trovato il modo di riempirsi la pancia, ma svendendo a poco prezzo dignità e umanità; se ci fate caso questo iter ha molti lati similari a quello che è avvenuto in America per i nostri emigranti dell’inizio secolo. L’unica differenza è la scarsa considerazione che aveva per noi italiani la religione cattolica, al di là delle feste rionali e delle manifestazioni pubbliche nelle quali era gioco forza fare bella mostra di “credenza”.

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