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martedì, maggio 23, 2006

ERIKA SOTTO I RIFLETTORI 

Il primo giorno di “libertà” per Erika De Nardo dopo sei anni di carcere (ne deve scontare altri sedici) si è risolto in una partitella di pallavolo con altre detenute nel campetto dell’oratorio di Buffalora e, soprattutto, in una mostruosa abbuffata di flash fotografici e di ronzii di telecamere.
I media infatti non si sono lasciati scappare l’evento che aveva come protagonista una ragazza che è stata rinchiusa all’età di sedici anni per avere massacrato – insieme al “fidanzatino” Omar - la madre e il fratellino con un numero altissimo di coltellate; la domanda che tutti si sono posti, con la morbosità che ci caratterizza, è “come sarà diventata dopo sei anni di carcere?”; per fortuna non sono state consentite interviste né altre cose del genere – del tipo di urlacci nel campo con risposta altrettanto urlata – per cui tutto si è risolto in immagini fotografiche e televisive che cercano di far rilevare una presunta o reale diversità: ma caspita, é naturale che sia cambiata, in sei anni, lo sarebbe stata chiunque, anche se non fosse stata detenuta!!
Ma torniamo a parlare di Erika e del problema psico-antropologico che essa rappresenta per un sacco di studiosi che si susseguono al suo fianco; il discorso che viene fatto da quasi tutti fa leva sul mancato pentimento della ragazza e quindi, di conseguenza, la non accettazione di quello che ha fatto, cercando così una sorta di cancellazione dell’evento traumatico, cancellazione peraltro impossibile perché il trauma resta scritto nell’inconscio e da lì non si può cancellare se non attraverso una autentica “rimozione”.
Ovviamente non conosco direttamente Erika e neppure i suoi familiari e quindi mi baso su quanto traspare da rare interviste con psichiatri che l’hanno avuta o l’hanno tuttora sotto cura: la fanciulla non riesce a “rivivere”, in senso psicanalitico, il dramma da lei stessa provocato e pertanto non sa uscire dal labirinto sensorio che la attanaglia.
Eppure, direte voi, le immagini che i media ci forniscono della partitella a pallavolo ci mostrano una ragazza piacevole, con un bel sorriso aperto e con una apparente voglia di vivere, di giocare, di essere una come le altre, con la sua bella codina di cavallo e i suoi occhiali da sole griffati.
Il problema è che Erika non è come le altre e non lo sarà mai, neppure quando uscirà di galera dopo avere scontato la pena; Erika è forzatamente diversa e – ad osservarla bene e con spirito critico – si nota che mostra un equilibrio che non può avere, un benessere che è soltanto un tentativo di rimozione, un’allegria che viene smentita dall’impenetrabile cortina degli occhi e dalla fronte perennemente aggrottata.
L’inizio della rivisitazione del dramma che la lacera ha luogo con la presa di coscienza dell’accaduto e conseguentemente con l’indispensabile pentimento; su questa presa di coscienza la ragazza può sperare di costruire una sua risposta psicologica al dramma che ha vissuto; naturalmente tutto questo costa dolore ed è la “vera” espiazione che la società può proporle, ma è anche l’unico modo perché la ragazza possa riacquistare un minimo di autostima e di spinta verso il futuro che l’attende.
Se la ragazza non riuscirà a entrare dentro se stessa ed a rivoltarsi come un calzino per estrarre “una nuova Erika”, la società avrà fallito nel suo recupero e lei sarà destinata ad apparire con quel suo sorriso stereotipato che tutto è fuori che un simbolo di felicità.

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