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martedì, gennaio 10, 2006

MA DELL'IRAQ NON NE PARLIAMO PIU'? 

E’ un po’ di tempo che non parliamo più dell’Iraq, come se la situazione si fosse normalizzata; e invece, giornalmente, con uno stillicidio poco appariscente ma che alla fine del periodo fa un bel numero, si registrano una decina di morti (nei giorni fortunati) e una ventina (nei giorni peggiori) e cifre superiori nei giorni particolarmente sfortunati, che però non sono rarissimi.

I numeri in effetti non sono così alti da fornire argomento per la loro collocazione nelle prime pagine dei quotidiani, ma di una cosa sono sintomatici: alla faccia delle elezioni che si sono tenute nel paese, alla faccia della formazione del nuovo governo (di coalizione), i “terroristi” non sono stati affatto sconfitti e il loro leader Al Zarqawy risulta ancora imprendibile per le forze americane e per quelle della coalizione.

Intanto, fedeli al detto “ogni bel gioco dura poco”, in Europa, i governi che hanno aderito all’iniziativa di Bush stanno cercando una scorciatoia per togliersi dall’impaccio: sia noi italiani che i britannici stiamo ipotizzando una diminuzione a scalare entro il 2006 e, alla fine dell’anno un totale disimpegno; analogamente le altre forze armate europee presenti sul teatro irakeno.

Anche in America, lo stesso governo Bush, comincia ad avanzare ipotesi abbastanza ravvicinate per il ritiro delle truppe ed il rientro in patria dei soldati.

Quale il motivo di questi rientri “anticipati”? A mio modesto avviso il motivo principale è che questa missione è diventata antipatica a tutti (ammesso che sia mai stata simpatica) e che quindi questa antipatia viene scontata in calo di voti alle elezioni; c’è poi il discorso sull’esportazione della democrazia che è rimasto un bel teorema e basta.

Negli Stati Uniti ci sarà a breve le elezioni per il rinnovo della Camera dei Rappresentanti e Bush rischia fortemente di perdere la maggioranza che aveva conquistato alle precedenti consultazioni; da qui il piano che il Pentagono sta mettendo a punto per favorire il rientro dei soldati.

Analoga situazione in Italia, con la scusante che noi siamo da meno tempo in Iraq e che è sempre stato affermato che la scadenza “massima” sarebbe stata quella del 2006, a meno di evenienze particolarissime.

Però mi sembra di avvertire una sorta di menefreghismo su quello che si lascia nello sfortunato paese mediorientale, in particolare da parte degli americani: le forze di polizia irakene istruite approssimativamente dagli europei e dagli statunitensi, non sono assolutamente in grado di tenere testa ai “terroristi” di Al Qaeda e quindi la situazione è e resterà esplosiva, con le bande armate che spadroneggiano nell’intero paese.

Ma cosa vogliono questi “terroristi”? Nessuno dei tanti soloni esperti in problemi irakeni è stato in grado di fornire una spiegazione più o meno valida; se ci togliamo dalla mente la cosiddetta “guerra di liberazione” teorizzata soltanto dalla Giudice milanese Forleo, si resta allo schema originario di Bin Laden: attaccare e fare esplodere le contraddizioni specialmente in quei paesi arabi più moderati e quindi più disponibili ad abbracciare il modello di vita occidentale; tra l’altro, è di oggi il sondaggio (non so quanto attendibile) promosso dall’emittente Al Jazira, secondo cui il 57% degli arabi è favorevole ad Al Qaeda.

Non ci dimentichiamo mai che il fine ultimo di Bin Laden è il ripristino dell’originario “califfato”, smantellato dai turchi alla fine dell’ottocento e per fare questo deve riconquistare anzitutto la “sua” Arabia.

La soluzione, in caso di partenza precipitosa da parte delle forze occidentale, io l’ho già detta tempo addietro, ma mi piace ripeterla: diamo una bella ripulita a Saddam, gli ricompriamo la divisa da generalissimo e lo rimettiamo alla testa dell’Iraq; lui, state tranquilli, sa benissimo come riportare l’ordine!


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