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venerdì, gennaio 20, 2006

EUTANASIA 

Su richiesta di una cara amica – sollecitata a sua volta, probabilmente, da un caso personale – affronto il tema dell’eutanasia, ma senza la baldanza e l’entusiasmo che uso negli altri argomenti che sono abituato a trattare giornalmente, perché, quando si tocca l’essere umano bisogna cercare di evitare il più possibile le varie forme di strumentalizzazione e di personalizzazione; questo perché c’è la carne che soffre dietro ai nostri discorsi – miei e di altri che ne sanno certamente più di me – e quindi parlare delle sofferenze di un altro è sempre assai opinabile, a meno di scendere nell’assolutismo oggi imperante, in forza del quale “IO” sono al centro dell’universo e quindi quello che “IO” assumo essere la verità deve diventare automaticamente “la verità”.
Nei miei post sono anche abituato a partire da una vicenda reale e poi a fornire il mio modesto pensiero circa quel fatto; anche per l’eutanasia la vicenda ci sarebbe, ed è di quelle che fanno accapponare la pelle: si sta svolgendo in America e riguarda una bimba adottata, di 11 anni, ridotta allo stato vegetativo dalle percosse dei genitori adottivi e per la quale la Corte Suprema aveva deciso di “staccare la spina”, su richiesta della madre biologica; contemporaneamente a questa decisione la bimba ha preso a reagire agli stimoli dei medici e questi movimenti – forse involontari – hanno turbato la madre che ha deciso di ritirare la richiesta.
In questo caso però stiamo parlando di una persona che, oltre a non essere in grado di esprimere il proprio pensiero, non è neppure in preda a dolori o comunque difficoltà vitali, in quanto vive uno stato vegetativo attaccata a delle macchine (sapere poi se soffre o meno è un altro discorso, diciamo che non lo vediamo!)
Parliamo invece di chi sta affrontando una malattia – incurabile, cioè che non ha ragionevoli speranze di guarigione – e che ha le tipiche sofferenze di una degenza prolungata o comunque di uno stato di non autonomia operativa e di una impossibilità a porre in atto anche cose elementari della vita quotidiana.
È lecito che una persona del genere possa chiedere quella che viene definita “la dolce morte”, una serie di atti cioè, compiuti sotto la supervisione e l’approvazione medica, tesi a provocare un trapasso con il minore disagio possibile e in totale assenza di dolore?
I medici, che si atteggiano anche a filosofi, predicano la validità di questa “dolce morte” in quanto “atto di pietà” teso a permettere di “morire con dignità”; si vede, da queste affermazioni, che chi le fa ha visto tante volte morire – e quasi sempre senza dignità – ma non sono mai “morti loro” per poter dire che si può morire “con dignità”.
In effetti la morte con dignità non esiste; esiste caso mai la morte senza il dolore, ma fermiamoci qui e non mettiamo in campo la dignità, perché nel caso della morte non c’entra proprio niente.
Possiamo dire che quando un individuo – pienamente cosciente e sia pure sbagliando sotto un certo profilo etico/religioso – chiede di poter lasciare questa valle di lacrime perché non accetta più la vita che una gravissima malattia gli impone di fare e neppure i dolori che continua a subire, questa può considerarsi una richiesta quantomeno “legittima”.
Attenzione però ad andare oltre, perché seguitando su questa strada si arriva a ipotizzare anche un intervento nel caso di un qualunque suicidio, per motivi che a noi possono apparire futili, ma per colui che lo mette in atto sono gravissimi (un brutto voto a scuola, un amore finito e via di questo passo).
Quindi molta circospezione nel trattare questa materia di difficile gestione che però, capisco bene, stia diventando di grande attualità, stante anche la desuetudine alla sofferenza che l’odierna società ci sta imponendo attraverso i mass-media, secondo i quali si deve essere tutti belli e in forma; gli altri? Nel cassonetto dell’immondizia!

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