martedì, dicembre 13, 2005
Uova marce e globalizzazione
“Si, è vero, abbiamo usato quelle uova avariate. Spesso erano solo rotte o semplicemente incubate, ma non possiamo escludere che in alcuni casi fossero marce. Il motivo? Uno solo: comprare la materia prima a prezzi così bassi era l’unico modo per sopravvivere sul mercato e non eravamo certo i soli a farlo.” Questa l’ammissione testuale di uno degli indagati, confessi, dello scandalo delle uova marce, scandalo scoppiato a Bologna ma che comincia ad espandersi nel Veneto ed in altre regioni d’Italia.
L’ammissione è molto semplice: per continuare a restare sul mercato dovevamo portarci al “minimo” dei prezzi in uso, facendo i nostri lavorati in qualunque modo ci potesse consentire di raggiungere questo prezzo basso e di guadagnare qualcosa per noi.
Sappiamo benissimo che il costo di un prodotto – prima delle tasse – è formato da tre componenti: la materia prima, le spese generali e il costo della mano d’opera. Nel nostro paese la seconda e la terza componente sono intangibili, quindi l’unico elemento che può subire interventi è il primo, cioè il costo della materia prima. Ma questo va a scapito della qualità del prodotto! E chi se ne frega, tanto la concorrenza viene dall’oriente, dove certo la qualità non è all’apice dei pensieri del produttore.
Scavando nei procedimenti produttivi, si è scoperto anche che in alcune centrifughe venivano trattati simultaneamente albumi, tuorli e gusci, con evidenti problemi di igiene, ma contemporaneamente con notevoli abbassamenti dei costi di produzione.
Adesso resta la mano d’opera: non credo che resisterà a lungo, in quanto già alcuni vertici della Confindustria stanno ipotizzando l’aumento delle ore di lavoro a paga costante e analoga operazione sembra essere già stata messa in atto da aziende del nordeste, particolarmente attaccate dall’invasione del tessile cinese. Il discorso fatto agli operai è il seguente: “o accettate questo oppure si chiude e si trasferisce la fabbrica in un paese straniero”.
Quando lo dicevo io – oltre un anno fa – qualcuno mi ha dato del visionario; quando affermavo che la globalizzazione – così come la Comunità Europea – è operazione che comporta vantaggi per alcune strutture mentre la stragrande maggioranza ne soffre terribilmente la concorrenza, venivo tacciato di miopia industriale.
Ma non me ne faccio un vanto, perché non ci voleva certo la sfera di cristallo oppure particolari conoscenza di economia per accorgersi che la Cina, come l’India e adesso anche il Brasile, anziché rappresentare per i nostri produttori un enorme sfogo alla produzione, sarebbe presto diventata un nostro concorrente, così come siamo stati noi nei confronti della Germania e degli Stati Uniti negli anni ’60 e ’70.
Un mercato che nessuno controlla e che non è soggetto a nessuna regolamentazione non può sfociare altro che nel caos; mi si perdoni il paragone, ma è di pochi giorni or sono la notizia delle decine di morti in Cina per tumulti provocati dai contadini ai quali viene imposto un prezzo ridicolo per la loro merce; evidentemente le forze dell’ordine sono schierate dalla parte dei produttori e non dei tartassati. Impossibile solo il pensare di paragonare questa situazione ad analoghe nel nostro Paese.
Possibile però ricordarsi di queste cose quando si va a comprare qualcosa: è capitato a nessuno di voi di acquistare un aglio: sono quasi tutti di provenienza cinese e costano pochi soldi; se rifacciamo in senso inverso la filiera del prodotto, comprendiamo benissimo il perché i contadini cinesi cominciano a ribellarsi.
Comunque sono solo avvisaglie, stroncate duramente sul nascere, niente di paragonabile alle tutele che ci sono da noi; ovviamente siamo noi ad essere nel giusto, perché non vorrei che si arrivasse a imitare questi paesi anche sotto il profilo dei diritti dei lavoratori.