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mercoledì, luglio 27, 2005

Globalizzazione e islamismo 

Possiamo dire che la globalizzazione – con tutto quello che ne consegue – è uno dei principali nemici dell’Islam: da notare che questa nuova realtà economica altro non è che la continuazione, in forma parossistica, delle teorie proprie della Rivoluzione Industriale del settecento in cui il mondo civilizzato – o buona parte di esso – imboccò la strada del “benessere” e dell’attuale modello di sviluppo basato sul concetto di produzione e consumo al più alto livello possibile.
In pratica cosa veniva detto? Produciamo maggiori beni di consumo a patto però di trovare mercati sufficientemente ricchi e desiderosi di accogliere tali beni; se non sarà dalle nostre parti vorrà dire che tenteremo di invadere altre Nazioni o addirittura altri Continenti, con l’obiettivo primario di piazzare i nostri beni.
Con la globalizzazione questo concetto è stato portato al massimo dello sviluppo possibile, facendo subentrare lo slogan che il mondo è un villaggio – appunto, un villaggio globale – nel quale ogni figura del gioco assume una precisa identità: l’industriale ha il compito di produrre al minor costo possibile e quindi cerca il risparmio primario sul costo del lavoro; l’operaio a sua volta è investito di una duplice funzione “sociale”: da una parte rappresenta la leva essenziale per la buona riuscita del processo produttivo e dall’altra interpreta il ruolo del “consumatore”, di colui cioè che finisce tutto il proprio stipendio per acquistare e mettersi in casa tutta una serie di oggettistica e di stupidaggini che hanno la caratteristica della “futilità”.
È di qualche giorno fa un mio intervento circa la diversità dei consumi rispetto a soli venti anni addietro: pensiamo per un momento allo sviluppo delle telecomunicazioni (telefonini, Internet, ecc.) e vediamo come la moderna civiltà si sviluppa su direttrici stabilite dai potenti e la gran massa di consumatori deve subire questo mercato, sia esso formato da griffe apparentemente importanti oppure da cellulari di ultima generazione.
Di questa situazione l’Islam rappresenta il desiderio dell’esatto contrario: la loro visione della società è sostanzialmente centrata sulla teocrazia dei loro maestri (gli Imam) che hanno nei confronti della gente la funzione di guida spirituale ma anche di consigliere socio politico.
Il loro desiderio sarebbe quello di essere lasciati in pace a bollire nel loro brodo, senza nessuna contaminazione con “gli infedeli” che non possono portare niente di positivo ai seguaci di Allah; in questi giorni, dopo le bombe di Londra, sono usciti alcuni dettami islamici ad uso e consumo delle cellule dormienti, nate in “territorio nemico” ed in attesa di operarvi.
Ebbene, in esse viene indicato che il bravo musulmano deve rimanere fedele ai dettami religiosi anche in terra di infedeli, ma in questo caso può in un certo senso mimetizzarsi e comportarsi come tutti, salvo alcune prescrizioni ineluttabili: non bere alcolici, dire regolarmente le preghiere, non mangiare maiale e non fornicare; quest’ultimo verbo (fornicare, appunto) il Devoti-Oli me lo “traduce” come segue: avere rapporti sessuali peccaminosi.
Pensiamoci un momento: la nostra società è pervasa da questi “rapporti”, tutto o quasi viene fatto in funzione di essi che debbono avere – appunto – una matrice di peccato e non di sentimento: basta guardare alcune tra le principali pubblicità per vedere che tale forma di richiamo è costantemente presente.
Tutto questo – oltre a tante altre cose – ci divide dall’impostazione islamica dell’esistenza; quale delle due facce sarà migliore e quale soprattutto avrà un futuro?

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