martedì, maggio 03, 2005
Tra protezionismo e globalizzazione
Dopo la “mezza pagina” a pagamento dell’Associazione dei Calzaturieri che “implorava” di comprare solo scarpe italiane, cioè fatte in Italia da maestranze italiane, ecco una nuova pubblicità che fa perno su un protezionismo strisciante: mi riferisco agli spot televisivi che i marchi italiani di automobili (marchi diversi, ma proprietario uno solo: la FIAT) hanno messo in onda; come head-line abbiamo “ogni volta che compri un’auto tedesca i tedeschi ringraziano” e analogamente per le auto francesi, ecc.; in questi casi la forma di “protezionismo indotta” è rappresentata dal senso di colpa che prende colui che ha acquistato un’auto straniera, visto che i ringraziamenti dei francesi o tedeschi sono fatti con un sorrisetto sotto i baffi e stanno sottacendo un “mors tua, vita mea”.
Ma mi chiedo: non siamo nell’era della “globalizzazione” e allora cosa c’entrano questi rigurgiti di protezionismo?
Bene, allora facciamo un passo indietro e cominciamo a intravedere quella che è la principale caratteristica della “globalizzazione”: il postulato iniziale è che il mondo è un “villaggio” e quindi, alla stessa stregua del villaggio o cittadina di nostra conoscenza, gli acquisti e le vendite vengono effettuati nei posti dove è più conveniente per me; prima notazione: esasperazione dell’egoismo e abbattimento di qualunque concetto sociale.
Ed infatti la parola d’ordine è stata: andiamo a produrre dove la mano d’opera è più a buon mercato, in qualunque parte del mondo questa situazione si trovi ed in qualunque modo questo basso prezzo si formi (assenza di sindacati, scarsi bisogni della gente, ecc.); ovviamente accanto alla mano d’opera deve esserci anche un favorevole regime fiscale e condizioni buone per quanto riguarda le vie di comunicazione.
Ricordate le prime fabbriche della FIAT in Polonia, in Brasile e – l’antesignana – quella di Togliattigrad, in Russia? Ovviamente altrettanto hanno fatto anche operatori economici infinitamente più piccoli del colosso torinese, quelli per intenderci del Veneto o della bassa Lombardia, rivolti principalmente verso l’est Europeo e svariati calzaturieri delle Marche verso il sud est asiatico.
Tutte queste erano situazioni che ci favorivano per quanto attiene l’aspetto produttivistico, mentre quello che rimaneva in Italia, cioè territori impoveriti, operai cassaintegrati e poi cacciati, erano tutte cose che ai signori industriali non interessavano; loro – novelli Marco Polo – esploravano nuove vie della seta e ci sarebbe da aggiungere che anche molti personaggi istituzionali (oltre ai soliti politici) vedevano di buon occhio questa situazione, tant’è che ogni visita ufficiale di un Presidente della Repubblica in quei paesi prevedeva un incontro con questi “ambasciatori del lavoro italiano”.
Il secondo postulato riguarda la vendita di questi prodotti: esso recita “piazzarli dove il mercato è più recettivo ai prezzi maggiori che possono essere spuntati”.
All’inizio si è trattato della madre patria – cioè l’Italia per i nostri Industriali – ed infatti tantissimi erano i prodotti che comparivano sul mercato con il Made in Taiwan, oppure India, oppure China, ecc.
Saturato il nostro mercato il quale peraltro è andato sempre più impoverendosi per effetto della scarsità di domanda interna (entrano di gran moda i Co.Co.Co. quindi scarsa sicurezza) la produzione si è ritrovata ad avere un sacco di merce che in Italia non poteva essere piazzata: hanno allora provato a venderla nei paesi produttori, ma hanno avuto dinieghi netti sia da quel mercato e sia dalle autorità del Paese, tese a privilegiare la produzione locale a causa della carenza di valuta pregiata.
Ma poi quei Paesi la soluzione al problema l’hanno trovata da soli: le fabbriche le hanno realizzate loro stessi, con l’aiuto dei Paesi come il nostro “super-sviluppato”, quindi queste strutture che non fanno altro che copiare la nostra produzione, inizialmente invadono il solo mercato locale e successivamente – cioè adesso – il nostro mercato e quello europeo in genere: è una vera invasione di prodotti che facevamo noi e che adesso ci pervengono da paesi esteri, in tutto simili, ma a costi infinitamente più bassi perché realizzati con mano d’opera per niente assistita e niente affatto strutturata sia sindacalmente che previdenzialmente.
Questo è ciò che abbiamo creato e che pertanto ci stiamo ritrovando; come uscire da questa sorta di labirinto non è facile dirlo e richiederebbe anzitutto il coraggio di mosse impopolari e fuori dagli schemi, come ad esempio – ma non è l’unica – quella che più mi piace e cioè uscire dai cappi dell’Europa e riprendere la nostra economia di medio cabotaggio, da pirati d’altura, pronti a lanciarsi all’abbordaggio di qualunque nave (cioè Paese) di passaggio: è quanto abbiamo fatto dal ’48 fino ai primi anni ’70 (cioè dalla prima fase della ricostruzione agli anni del boom economico) e non ci siamo trovati male.
So bene che non sarà possibile mettere in piedi quanto sopra esposto, ma io personalmente, con le mie poche conoscenze, non vedo nient’atro.
Ma mi chiedo: non siamo nell’era della “globalizzazione” e allora cosa c’entrano questi rigurgiti di protezionismo?
Bene, allora facciamo un passo indietro e cominciamo a intravedere quella che è la principale caratteristica della “globalizzazione”: il postulato iniziale è che il mondo è un “villaggio” e quindi, alla stessa stregua del villaggio o cittadina di nostra conoscenza, gli acquisti e le vendite vengono effettuati nei posti dove è più conveniente per me; prima notazione: esasperazione dell’egoismo e abbattimento di qualunque concetto sociale.
Ed infatti la parola d’ordine è stata: andiamo a produrre dove la mano d’opera è più a buon mercato, in qualunque parte del mondo questa situazione si trovi ed in qualunque modo questo basso prezzo si formi (assenza di sindacati, scarsi bisogni della gente, ecc.); ovviamente accanto alla mano d’opera deve esserci anche un favorevole regime fiscale e condizioni buone per quanto riguarda le vie di comunicazione.
Ricordate le prime fabbriche della FIAT in Polonia, in Brasile e – l’antesignana – quella di Togliattigrad, in Russia? Ovviamente altrettanto hanno fatto anche operatori economici infinitamente più piccoli del colosso torinese, quelli per intenderci del Veneto o della bassa Lombardia, rivolti principalmente verso l’est Europeo e svariati calzaturieri delle Marche verso il sud est asiatico.
Tutte queste erano situazioni che ci favorivano per quanto attiene l’aspetto produttivistico, mentre quello che rimaneva in Italia, cioè territori impoveriti, operai cassaintegrati e poi cacciati, erano tutte cose che ai signori industriali non interessavano; loro – novelli Marco Polo – esploravano nuove vie della seta e ci sarebbe da aggiungere che anche molti personaggi istituzionali (oltre ai soliti politici) vedevano di buon occhio questa situazione, tant’è che ogni visita ufficiale di un Presidente della Repubblica in quei paesi prevedeva un incontro con questi “ambasciatori del lavoro italiano”.
Il secondo postulato riguarda la vendita di questi prodotti: esso recita “piazzarli dove il mercato è più recettivo ai prezzi maggiori che possono essere spuntati”.
All’inizio si è trattato della madre patria – cioè l’Italia per i nostri Industriali – ed infatti tantissimi erano i prodotti che comparivano sul mercato con il Made in Taiwan, oppure India, oppure China, ecc.
Saturato il nostro mercato il quale peraltro è andato sempre più impoverendosi per effetto della scarsità di domanda interna (entrano di gran moda i Co.Co.Co. quindi scarsa sicurezza) la produzione si è ritrovata ad avere un sacco di merce che in Italia non poteva essere piazzata: hanno allora provato a venderla nei paesi produttori, ma hanno avuto dinieghi netti sia da quel mercato e sia dalle autorità del Paese, tese a privilegiare la produzione locale a causa della carenza di valuta pregiata.
Ma poi quei Paesi la soluzione al problema l’hanno trovata da soli: le fabbriche le hanno realizzate loro stessi, con l’aiuto dei Paesi come il nostro “super-sviluppato”, quindi queste strutture che non fanno altro che copiare la nostra produzione, inizialmente invadono il solo mercato locale e successivamente – cioè adesso – il nostro mercato e quello europeo in genere: è una vera invasione di prodotti che facevamo noi e che adesso ci pervengono da paesi esteri, in tutto simili, ma a costi infinitamente più bassi perché realizzati con mano d’opera per niente assistita e niente affatto strutturata sia sindacalmente che previdenzialmente.
Questo è ciò che abbiamo creato e che pertanto ci stiamo ritrovando; come uscire da questa sorta di labirinto non è facile dirlo e richiederebbe anzitutto il coraggio di mosse impopolari e fuori dagli schemi, come ad esempio – ma non è l’unica – quella che più mi piace e cioè uscire dai cappi dell’Europa e riprendere la nostra economia di medio cabotaggio, da pirati d’altura, pronti a lanciarsi all’abbordaggio di qualunque nave (cioè Paese) di passaggio: è quanto abbiamo fatto dal ’48 fino ai primi anni ’70 (cioè dalla prima fase della ricostruzione agli anni del boom economico) e non ci siamo trovati male.
So bene che non sarà possibile mettere in piedi quanto sopra esposto, ma io personalmente, con le mie poche conoscenze, non vedo nient’atro.