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sabato, aprile 30, 2005

Le scarpe straniere 

In questi ultimi giorni ho avuto modo di vedere una mezza pagina pubblicitaria che l’Associazione Nazionale Calzaturifici Italiani ha fatto pubblicare, a proprie spese, su diversi quotidiani: vi si legge un “pressante invito” a comprare calzature prodotte in Italia; questo viene motivato come una necessità per salvaguardare un modello di civiltà della produzione.
Per trattare adeguatamente l’argomento bisogna fare un piccolo passo indietro e precisamente ai primi anni ’90; è di quell’epoca infatti il primo esodo di massa delle aziende calzaturiere italiane verso paesi con mano d’opera “più malleabile” e soprattutto a buon mercato.
Si cominciò con alcuni paesi europei, poi con l’India e l’Egitto e da ultimo con la Cina e l’est europeo; cosa è stato fatto in questi Paesi? Semplice, alcune nostre aziende si sono trasferite in quei lidi e hanno impiantato aziende manifatturiere utilizzando un ventesimo di mano d’opera nostrale (i superspecializzati) e affidandosi per il resto a quella locale, alla quale le maestranze italiane insegnavano il mestiere.
In quei tempi io ero uno dei pochi che avvertiva la sostanziale ingiustizia di questa forma di “globalizzazione” e andavo dicendo che uno stato serio avrebbe detto a questi furbi di imprenditori: “fabbrichi le tue scarpe in India? Bene, vendile anche agli indiani”.
Notate bene che anche i nostri governanti nelle occasioni di visite ufficiali in quei paesi avevano parole di elogio (quasi novelli eroi) per questi nostri concittadini che avevano aperto questa nuova strada; in effetti si erano semplicemente limitati ad andare a utilizzare personale sotto pagato, sfruttato e con nessuna tutele sindacale.
E questi erano i novelli “Marco Polo”!
Per un po’ le cose sono andate nel modo previsto dai nostri furbacchioni, poi gli stati che ospitano queste strutture hanno fatto questo discorso: ma perché dobbiamo dipendere da questi italiani, ormai il mestiere lo sanno fare anche i nostri, quindi facciamogli una bella e spietata concorrenza. E così è stato, tant’è che adesso si hanno prodotti che una volta venivano fatti dagli italiani che ci pervengono dall’estero a prezzo invitante e che quindi mette fuori mercato le nostre produzioni.
Ma a voi sembra una cosa così difficile da prevedere? Vi sembra che se l’avevo prevista io non avrebbe potuto fare altrettanto anche un normale imprenditore o, peggio ancora, un semplice funzionario del Ministero del Commercio con l’Estero. Se non l’hanno capito è perché a nessuno è interessato capirlo: intanto hanno messo a casa una miriade di operai italiani quando se ne sono andati, adesso che sono costretti a tornare, perché all’estero non c’è più quel margine di prima, non credo che riassumeranno personale italiano ma si accontenteranno di qualche europeo proveniente da zone nelle quali ci sono state lavorazioni del genere e il tutto verrà contrabbandato come “prodotto in Italia”; ma da chi?
Resta da aggiungere che dopo avere invocato dall’U.E. una sorta di clausola di salvaguardia per imporre dazi a questi tipi di merci, hanno deciso di passare direttamente al contrattacco: se non fosse che questi stessi signori erano in testa a tutti nel magnificare la globalizzazione, sarei al loro fianco, ma così….
Questo discorso della globalizzazione merita che gli si dedichi un approfondito esame; non oggi, ma in un prossimo futuro prometto che tornerò in argomento per trattare di questa fase economica che – e questa è l’anticipazione – ha prodotto tanta miseria in tante zone d’Italia, ma al tempo stesso ha generato tanta ricchezza, specialmente in chi lo era già. Questo potrebbe essere l’assioma di partenza per la nostra analisi – alla buona – come siamo abituati a fare su tutto quello che ci pare interessante.

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