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venerdì, marzo 11, 2005

Attenti, la Cina è vicina! 

Tra le tante paure dell’uomo contemporaneo, ce n’è una che risale a molto tempo fa, direi quasi atavica: il pericolo che viene dall’est, la Cina che ci conquista tutti.
Già nel 1962, per limitarsi al dopoguerra, il celebre regista svedese Ingmar Bergman, nel suo “Luci d’inverno” narra di un pastore in crisi esistenziale perché non riesce ad aiutare il suo prossimo: uno di questi che non è stato aiutato dal prete è un parrocchiano ossessionato dalla “venuta dei cinesi” che conquistano il mondo; tale ossessione lo condurrà al suicidio e, per quanto riguarda il sacerdote, alla negazione dell’esistenza di Dio.
Poco dopo, nel 1967, Marco Belloccio firma “La Cina è vicina”, più spostato verso l’asse politico-sociale: siamo infatti prossimi al ’68 e alle famose contestazioni studentesche.
Successivamente – negli anni ’80 e ancora di più in quelli ’90 – abbiamo assistito all’arrivo di una massa enorme di cinesi che si sono messi a lavorare, “in proprio”, nel campo della pelletteria e successivamente hanno cominciato ad aprire i celebri ristoranti, sembra con i soldi della mafia cinese, organizzazione ben più temibile e ramificata della nostra.
In questi ultimi anni il pericolo lo abbiamo vissuto in sede di globalizzazione dell’economia: si produce dove è più conveniente – specie per la mano d’opera a basso o bassissimo costo – e si vende in tutto il mondo.
Era un po’ il nostro marchio di fabbrica, ma siamo stati sconfitti – su questo piano – sia dai paesi emergenti del terzo e quarto mondo e sia dagli ex paesi dell’area comunista: in entrambe queste aree la mano d’opera a poche lire e stata per anni una avversaria dei nostri operai e una alleata dei nostri imprenditori con poca fantasia ma con molta spregiudicatezza.
Adesso il problema si è spostato dal “cinese-singolo-operaio” alla Cina come sistema paese che, alla stregua di un sonnolento dinosauro, si sta svegliando e diventa così un pericolo per tutte le economie, non solo quella italiana, ma addirittura l’intera Europa ed anche gli Stati Uniti.
Ed ecco che nel 2005 si è osato pronunciare la vecchia ed adusata parola che ha tenuto banco per tanti anni: dazi doganali, quel balzello cioè che era stato abolito con grande gioia di tutti all’avvento dell’Europa Unita.
La motivazione è semplice: in Italia esistono due ordini di problemi, da un lato la lotta alla contraffazione dei marchi famosi a cura dei cinesi – e questo è un problema di Polizia più che di dazi – e dall’altro il problema di alcune industrie (in particolare il tessile) messe letteralmente in ginocchio dall’importazione di prodotti realizzati in Cina.
È stato così deciso di affrontare – per ora solo questo – il problema dei dazi doganali, ma si è subito assistito ad una sequela di improperi da parte dei liberali nostrali che storcono la bocca di fronte soltanto alla parola.
Il problema è andato però avanti – per merito principalmente della Lega – ed è stato affrontato e portato addirittura in Consiglio dei Ministri che, accertata l’impossibilità di reintroduzione di dazi doganali per effetto dell’appartenenza della nostra normativa a quella dell’U.E., si è trovato, forse, un sistema: non più dazi ma contingentamento dei prodotti “made in cina” e in altri paesi del sud est asiatico, allineando le nostre disposizioni di legge ai parametri del WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) ed alla clausola di salvaguardia sottoscritta nel 2001 dall’U.E. con la Cina.
Insomma, a parte tutte le belle parole che possiamo pronunciare, si tratta di un vero e proprio “proibizionismo” rivolto verso paesi che hanno nella mano d’opera a bassissimo costo l’elemento che scardina i mercati, sconvolgendo la nostra vita sociale; e non illudiamoci che sia finita qui, perché la battaglia sarà lunga e senza esclusione di colpi.

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