mercoledì, febbraio 09, 2005
Se non ci fossero stati tutti quegli occidentali....
Nel contesto di una argomentazione più ampia, ho udito questa affermazione che mi ha indotto a riflettere e poi a comunicare a tutti voi queste mie riflessioni: “se nella tragedia del sud est asiatico non ci fossero stati implicati tutti quegli occidentali, non avremmo avuto tutta quella partecipazione emozionale che ha poi portato agli aiuti massicci, alle grandi offerte”.
In effetti, se togliamo quella patina di cinismo che è tipica di coloro “che stanno bene”, siamo costretti ad ammettere che la notorietà dell’evento e la sua durata nelle prime pagine dei mass-media, deriva direttamente dalla presenza sul luogo del disastro di così tanti occidentali.
È come se la curiosità della gente – alimentata dalla tragica evidenza dei fatti – fosse sempre più corroborata dai nostri connazionali che raccontano l’avventura e – fatto assolutamente non trascurabile – la partecipazione di ognuno di noi a parlare e a “soffrire” per luoghi che conosciamo, se non per esperienza diretta, almeno per immagini conosciute e comunque per sogni fatti su splendide vacanze che al momento non si sono ancora avverati.
Perché sia chiaro che la tragedia ha riguardato nostri “paradisi” sognati o vissuti, ha riguardato luoghi bellissimi diventati una merce turistica tra le più ambite dai clienti occidentali.
Non voglio sminuire i fatti – tragici – accaduti nel sud est asiatico, ma vorrei permettermi di ricordare – sommessamente – che proprio mentre scrivo queste note e mentre voi le leggete, ci sono svariati luoghi della terra che provocano tanti, ma proprio tanti morti, in particolare bambini.
Mi viene in mente il Darfur, la Liberia, il Burkina, dove infinite guerre civili – ma perché si ostinano a chiamarle “civili” mentre sono tutt’altra cosa – mietono continuamente morti e mutilati (ripeto, specialmente tra i bambini) con i nostri media che se ne occupano, distrattamente, solo se c’è spazio da riempire oppure se c’è un fatto eclatante da narrare; ma il giorno dopo cala di nuovo il sipario.
Per non parlare poi di teatri di guerre – civili anche queste? – come l’Irak e la Palestina, dove i morti si contano a decine – ma tutti i giorni – e che ricevono una maggiore attenzione dai media per il fatto che ne sono implicati – in un modo o nell’altro – alcuni paesi occidentali.
Comunque sia, per tutte queste zone “infernali”, dove la morte in alcuni casi diventa una liberazione, non ci sono iniziative di messaggini da un euro che si fanno per aiutare i bambini o comunque i sopravvissuti; non ci sono direttori di telegiornali che mostrano la loro faccia per lanciare una sottoscrizione tra gli ascoltatori ed inviare poi il ricavato a strutture delegate agli aiuti.
Se qualcuno di voi lo ricorda, all’inizio dei tragici fatti dello tsunami, lanciai una idea – balzana come sono tutte quelle che ho io – nella quale ipotizzavo una sorta di ONU della sofferenza, pronto ad entrare in azione tutte le volte che in questo mondo c’è qualcuno che soffre; e non mi si risponda che già esiste all’interno del Palazzo di Vetro una struttura che si occupa di questo, perché le prove concrete che ha dato sul campo di azione sono così fallimentari che meriterebbe soltanto uno smantellamento.
Sarebbe auspicabile invece un organismo meno burocratico, direttamente discendente dalle organizzazioni non governative, formato in massima parte da operatori della solidarietà, che avesse i fondi necessari per intervenire laddove se ne crei la necessità.
Chissà se avrò la soddisfazione di vedere qualcosa del genere!
In effetti, se togliamo quella patina di cinismo che è tipica di coloro “che stanno bene”, siamo costretti ad ammettere che la notorietà dell’evento e la sua durata nelle prime pagine dei mass-media, deriva direttamente dalla presenza sul luogo del disastro di così tanti occidentali.
È come se la curiosità della gente – alimentata dalla tragica evidenza dei fatti – fosse sempre più corroborata dai nostri connazionali che raccontano l’avventura e – fatto assolutamente non trascurabile – la partecipazione di ognuno di noi a parlare e a “soffrire” per luoghi che conosciamo, se non per esperienza diretta, almeno per immagini conosciute e comunque per sogni fatti su splendide vacanze che al momento non si sono ancora avverati.
Perché sia chiaro che la tragedia ha riguardato nostri “paradisi” sognati o vissuti, ha riguardato luoghi bellissimi diventati una merce turistica tra le più ambite dai clienti occidentali.
Non voglio sminuire i fatti – tragici – accaduti nel sud est asiatico, ma vorrei permettermi di ricordare – sommessamente – che proprio mentre scrivo queste note e mentre voi le leggete, ci sono svariati luoghi della terra che provocano tanti, ma proprio tanti morti, in particolare bambini.
Mi viene in mente il Darfur, la Liberia, il Burkina, dove infinite guerre civili – ma perché si ostinano a chiamarle “civili” mentre sono tutt’altra cosa – mietono continuamente morti e mutilati (ripeto, specialmente tra i bambini) con i nostri media che se ne occupano, distrattamente, solo se c’è spazio da riempire oppure se c’è un fatto eclatante da narrare; ma il giorno dopo cala di nuovo il sipario.
Per non parlare poi di teatri di guerre – civili anche queste? – come l’Irak e la Palestina, dove i morti si contano a decine – ma tutti i giorni – e che ricevono una maggiore attenzione dai media per il fatto che ne sono implicati – in un modo o nell’altro – alcuni paesi occidentali.
Comunque sia, per tutte queste zone “infernali”, dove la morte in alcuni casi diventa una liberazione, non ci sono iniziative di messaggini da un euro che si fanno per aiutare i bambini o comunque i sopravvissuti; non ci sono direttori di telegiornali che mostrano la loro faccia per lanciare una sottoscrizione tra gli ascoltatori ed inviare poi il ricavato a strutture delegate agli aiuti.
Se qualcuno di voi lo ricorda, all’inizio dei tragici fatti dello tsunami, lanciai una idea – balzana come sono tutte quelle che ho io – nella quale ipotizzavo una sorta di ONU della sofferenza, pronto ad entrare in azione tutte le volte che in questo mondo c’è qualcuno che soffre; e non mi si risponda che già esiste all’interno del Palazzo di Vetro una struttura che si occupa di questo, perché le prove concrete che ha dato sul campo di azione sono così fallimentari che meriterebbe soltanto uno smantellamento.
Sarebbe auspicabile invece un organismo meno burocratico, direttamente discendente dalle organizzazioni non governative, formato in massima parte da operatori della solidarietà, che avesse i fondi necessari per intervenire laddove se ne crei la necessità.
Chissà se avrò la soddisfazione di vedere qualcosa del genere!