giovedì, novembre 04, 2004
Cosa cambia con la vittoria di Bush?
Con questo titolo alludo allo scenario che andrà a realizzarsi circa i rapporti tra America ed Europa, intendendo quest’ultima come entità di 25 nazioni riunite nella U.E.
L’Europa ha alcuni problemi che se non risolti vanificano qualsiasi tentativo di riappacificazione: il primo e più importante è stabilire con quale voce parla la U.E., la voce di tutti (cioè si ricerca l’unanimità) oppure la voce della maggioranza o, ancora, la voce che proviene da alcune nazioni tra le più importanti (es. Gran Bretagna oppure Francia, Italia oppure Germania).
Questa inattuabilità di una voce sola che rappresenti tutta l’Europa, fa sì che prima di pronunciare qualunque cosa, i rappresentanti dell’Europa si debbano riunir più volte, limare il testo, concordarlo tra tutti e via discorrendo: probabilmente sono già trascorsi i quattro anni della Presidenza Bush quando e se riusciremo ad uscire con una voce comune.
Scherzo, ovviamente, ma fino ad un certo punto: certo che nei commenti del dopo elezioni i leader europei si sono distinti nella totale e disarmonica autonomia.
Mentre lo spagnolo Zapatero è il primo a congratularsi con Bush, nell’evidente ricerca di riallacciare i rapporti bruscamente interrotti dal ritiro spagnolo dall’Irak, la Francia, per bocca del suo Ministro degli Esteri ammonisce che gli U.S.A. “non possono immaginare di costruire, dirigere e animare il mondo da soli”.
La dichiarazione dei francesi – da sempre ostili a tutto quello che è americano, dimenticandosi di quando li hanno chiamati perché si ritrovavano Hitler a Parigi (e forse c’era ancora se non intervenivano loro) – è in direzione di tutto fuorché del tentativo di riallacciare buoni rapporti con gli U.S.A.; forse aspettano che sia Bush a fare la prima mossa, ma trovo questo atteggiamento molto poco producente e sostanzialmente miope per quanto riguarda il futuro.
Questo perché tutti dicono: l’America deve cercare di riallacciare i rapporti con l’Europa!
E va bene, ma anzitutto qualcuno dovrebbe chiarire a Bush che cosa si intende per Europa, se questa è rappresentata dalla Francia o dalla Gran Bretagna, dalla Germania o dall’Italia e dalla Polonia: tutto questo per evidenziare che prima di ogni altra mossa dovremmo essere noi a chiarirci le idee ed a cercare di trovare una posizione comune per affrontare il futuro dei rapporti con gli U.S.A.
Certo che l’astio e l’acredine di certe posizioni della sinistra italiana e francese non sono assolutamente indirizzate alla ricerca di questa nuova situazione dei rapporti tra le due sponde dell’Oceano, bensì volte a fare impressione sullo scenario politico dei loro paesi: alla faccia dell’Europa e di chi continua a crederci!
I paesi europei, se vogliono essere credibili, si devono cacciare in testa che questo presidente – da tutti considerato un mezzo deficiente (un po’ come Regan che ora viene da tutti rivalutato) – ha battuto ogni record di voti “popolari” conquistati, ha staccato Kerry di quasi 4 milioni di voti (sempre popolari) e, oltre ad avere vinto lui, ha condotto alla vittoria l’intero partito che ha aumentato i propri rappresentanti sia alla Camera che al Senato americano, dove – in entrambi – ha la maggioranza.
La democrazia impone di comportarci come ha fatto Kerry: prima della fine dello scrutinio ha telefonato a Bush e si è congratulato per la vittoria: gesto molto elegante ma anche sintomatico della volontà di essere, il mattino dopo, di nuovo “tutti americani”; noi cerchiamo di essere “tutti amici”, schierati contro il comune nemico: il terrorismo, la fame nel mondo, la povertà, l’ambiente e altri ce ne sarebbero.
L’Europa ha alcuni problemi che se non risolti vanificano qualsiasi tentativo di riappacificazione: il primo e più importante è stabilire con quale voce parla la U.E., la voce di tutti (cioè si ricerca l’unanimità) oppure la voce della maggioranza o, ancora, la voce che proviene da alcune nazioni tra le più importanti (es. Gran Bretagna oppure Francia, Italia oppure Germania).
Questa inattuabilità di una voce sola che rappresenti tutta l’Europa, fa sì che prima di pronunciare qualunque cosa, i rappresentanti dell’Europa si debbano riunir più volte, limare il testo, concordarlo tra tutti e via discorrendo: probabilmente sono già trascorsi i quattro anni della Presidenza Bush quando e se riusciremo ad uscire con una voce comune.
Scherzo, ovviamente, ma fino ad un certo punto: certo che nei commenti del dopo elezioni i leader europei si sono distinti nella totale e disarmonica autonomia.
Mentre lo spagnolo Zapatero è il primo a congratularsi con Bush, nell’evidente ricerca di riallacciare i rapporti bruscamente interrotti dal ritiro spagnolo dall’Irak, la Francia, per bocca del suo Ministro degli Esteri ammonisce che gli U.S.A. “non possono immaginare di costruire, dirigere e animare il mondo da soli”.
La dichiarazione dei francesi – da sempre ostili a tutto quello che è americano, dimenticandosi di quando li hanno chiamati perché si ritrovavano Hitler a Parigi (e forse c’era ancora se non intervenivano loro) – è in direzione di tutto fuorché del tentativo di riallacciare buoni rapporti con gli U.S.A.; forse aspettano che sia Bush a fare la prima mossa, ma trovo questo atteggiamento molto poco producente e sostanzialmente miope per quanto riguarda il futuro.
Questo perché tutti dicono: l’America deve cercare di riallacciare i rapporti con l’Europa!
E va bene, ma anzitutto qualcuno dovrebbe chiarire a Bush che cosa si intende per Europa, se questa è rappresentata dalla Francia o dalla Gran Bretagna, dalla Germania o dall’Italia e dalla Polonia: tutto questo per evidenziare che prima di ogni altra mossa dovremmo essere noi a chiarirci le idee ed a cercare di trovare una posizione comune per affrontare il futuro dei rapporti con gli U.S.A.
Certo che l’astio e l’acredine di certe posizioni della sinistra italiana e francese non sono assolutamente indirizzate alla ricerca di questa nuova situazione dei rapporti tra le due sponde dell’Oceano, bensì volte a fare impressione sullo scenario politico dei loro paesi: alla faccia dell’Europa e di chi continua a crederci!
I paesi europei, se vogliono essere credibili, si devono cacciare in testa che questo presidente – da tutti considerato un mezzo deficiente (un po’ come Regan che ora viene da tutti rivalutato) – ha battuto ogni record di voti “popolari” conquistati, ha staccato Kerry di quasi 4 milioni di voti (sempre popolari) e, oltre ad avere vinto lui, ha condotto alla vittoria l’intero partito che ha aumentato i propri rappresentanti sia alla Camera che al Senato americano, dove – in entrambi – ha la maggioranza.
La democrazia impone di comportarci come ha fatto Kerry: prima della fine dello scrutinio ha telefonato a Bush e si è congratulato per la vittoria: gesto molto elegante ma anche sintomatico della volontà di essere, il mattino dopo, di nuovo “tutti americani”; noi cerchiamo di essere “tutti amici”, schierati contro il comune nemico: il terrorismo, la fame nel mondo, la povertà, l’ambiente e altri ce ne sarebbero.