mercoledì, ottobre 20, 2004
La sposa turca
Non so il gradimento dei miei lettori a questo nuovo argomento che vado ad aggiungere al mio blog: occuparsi anche di qualche film che vedo per motivi di lavoro e trasferire sul post le mie “letture”; inizio con “La sposa turca”, film che ha vinto l’Orso d’oro 2004 al Festival di Berlino e che ho visto ieri sera. Se vi piace l’idea fatemelo sapere ed io, sia pure saltuariamente, continuerò a proporvi qualche film.
È la storia di Sibel, giovane ragazza turca oppressa da una famiglia ortodossa alla religione e alla tradizione del paese di origine, e di Cahit, anch’egli turco e disperato (è rimasto vedovo giovanissimo di una ragazza che amava tantissimo), con una profonda insoddisfazione della vita che lo conduce al tentativo – non riuscito – di suicidarsi gettandosi con l’auto contro un muro,
In ospedale il giovane incontra Sibel – anch’essa reduce da un tentato suicidio – e da lei riceve una proposta a dir poco stravagante: sposami, per finta, senza metterci dentro il sentimento e neppure il sesso, soltanto per permettermi di andarmene di casa; verrò ad abitare con te, pagherò la metà dell’affitto e delle altre spese e tra noi non ci saranno complicazioni di nessun genere.
Dopo il primo comprensibile imbarazzo Cahit accetta e così si giunge alle nozze ed alla successiva coabitazione: la prima notte il giovane si scaglia contro Sibel e la caccia di casa; la mattina dopo i due si rimettono insieme.
L’andamento della strana famiglia va avanti: lei trova lavoro da una parrucchiera che è anche amante, saltuaria, di Cahit, ha varie esperienze di sesso e s’impegna anche a rimettere in sesto il piccolo appartamento del giovane, spendendo così tutti i soldi regalati alla coppia in occasione del matrimonio; il giovane continua nel suo umile lavoro e nella vita fatta di droga e di un po’ di sesso.
Piano, piano Cahit sembra sciogliersi e giunge a vedere la ragazza con altri occhi, quelli dell’affetto prima e dell’amore poi, il tutto di pari passo con la ragazza; come conseguenza nasce anche la gelosia per i rapporti che Sibel ha avuto in passato e dei quali i ragazzi che l’hanno posseduta si vantano con il giovane: in occasione di una di queste discussioni Cahit uccide involontariamente un giovane e viene imprigionato; Sibel è accusata di aver portato “scandalo e disonore” alla famiglia ed è inseguita dal fratello che cerca addirittura di ucciderla. Ripara ad Istambul da una cugina che lavora in un grande albergo, ma tante e brutte avventura tornano a marchiarla: al termine troverà la pace con un altro uomo (il tassista che la salva dai teppisti?) dal quale avrà anche una bimba; è in queste nuove condizioni sociali e psicologiche che Cahit, uscito di prigione, la ritrova ad Istambul: tra i due scatta di nuovo la scintilla dell’amore (o della passione?) e, dopo due giorni trascorsi insieme scatta la richiesta del giovane a Sibel: vieni via con me. Lei non risponde, la vediamo fare la valigia a casa sua, ma sull’autobus che i due dovrebbero prendere insieme, c’è solo Cahit, lei è rimasta col marito e con la bambina.
Il film si divide in tre parti: la prima che ci mostra la personalità, il carattere e il disagio dei due giovani; la seconda che invece si svolge quando Cahit e Sibel stanno insieme e, un po’ alla volta, trovano l’amore e, attraverso questo, una loro nuova dimensione umana; la terza è centrata sull’incontro dei due – trascorsi circa dieci anni – con l’amore sempre vivo, ma anche con la rinuncia a questo sentimento che, se appagato, potrebbe fare del male ad altre persone e fare quindi ripiombare i due amanti allo stadio iniziale (egoismo, violenza verso gli altri).
L’amore invece ha fruttificato ed ha reso “diversi” questi due esseri disperati, conducendoli ad una sorta di accettazione del mondo e di quello che è; non più droga, non più violenza, non più sopraffazione: i due desiderano inserirsi e cogliere la felicità in quello che il mondo può loro offrire, per esempio a lei la gioia della maternità e a lui la ricerca dei natali nella cittadina turca mai visitata.
L’amore quindi come condizione essenziale ed irrinunciabile per la sopravvivenza in questo mondo di lotte etniche, di malvagità, di tradizioni sempre più violente: ma questo amore è malvisto dagli altri, da coloro che con il loro desiderio di sopraffazione non possono concepire la possibilità di instaurare questo sentimento che – in tutta la narrazione – è portato avanti soltanto dai due giovani (gli altri sono dediti ad altre cose, di natura sempre e soltanto materiale).
Nel film, girato da un regista di origine turca residente in Germania, c’è un grosso discorso sulle etnie che si vanno generando nei paesi destinatari della emigrazione: la Germania, con i suoi 4 milioni di turchi, è senza dubbio il teatro adatto per questo discorso.
L’autore, nel mostrare le varie generazioni di turchi, ci presenta anche la tradizione della loro terra che continua ad essere portata avanti dai vecchi, ma anche da coloro che vivono perennemente in simbiosi con la “famiglia” autentico clan che tutto decide e tutto stabilisce; non a caso Selim mette in moto tutto il marchingegno per sfuggire ad essa.
C’è poi la seconda generazione, quelli nati in Germania e che non sono oppressi dalla “famiglia – clan” che si mostrano totalmente diversi e più disponibili ad una integrazione che invece è nettamente rifiutata dagli altri.
Il film è ben fatto, forse un po’ troppo impregnato di situazioni forti e al limite, ma evidentemente all’autore serviva dare la botta nello stomaco allo spettatore per farlo meglio ragionare sul discorso di fondo del film.
Da notare, infine, che la narrazione è contrappuntata da una orchestrina folcloristica turca con una cantante che sembra narrare con le parole della canzone, alcune cose del film; quando tace e la musica resta sola a interpretare questa specie di “coro tragico”, è nella parte in cui più feroce e violenta è la vita narrata dal film; scelta espressiva di un qualche interesse, anche perché – pur essendo girato quasi interamente ad Amburgo - la piccola orchestra suona sulle rive del Bosforo, con alle spalle Istambul (cioè con la Turchia come scenario), quasi a voler ribadire la contrapposizione tra modernità tedesca e tradizione turca.
È la storia di Sibel, giovane ragazza turca oppressa da una famiglia ortodossa alla religione e alla tradizione del paese di origine, e di Cahit, anch’egli turco e disperato (è rimasto vedovo giovanissimo di una ragazza che amava tantissimo), con una profonda insoddisfazione della vita che lo conduce al tentativo – non riuscito – di suicidarsi gettandosi con l’auto contro un muro,
In ospedale il giovane incontra Sibel – anch’essa reduce da un tentato suicidio – e da lei riceve una proposta a dir poco stravagante: sposami, per finta, senza metterci dentro il sentimento e neppure il sesso, soltanto per permettermi di andarmene di casa; verrò ad abitare con te, pagherò la metà dell’affitto e delle altre spese e tra noi non ci saranno complicazioni di nessun genere.
Dopo il primo comprensibile imbarazzo Cahit accetta e così si giunge alle nozze ed alla successiva coabitazione: la prima notte il giovane si scaglia contro Sibel e la caccia di casa; la mattina dopo i due si rimettono insieme.
L’andamento della strana famiglia va avanti: lei trova lavoro da una parrucchiera che è anche amante, saltuaria, di Cahit, ha varie esperienze di sesso e s’impegna anche a rimettere in sesto il piccolo appartamento del giovane, spendendo così tutti i soldi regalati alla coppia in occasione del matrimonio; il giovane continua nel suo umile lavoro e nella vita fatta di droga e di un po’ di sesso.
Piano, piano Cahit sembra sciogliersi e giunge a vedere la ragazza con altri occhi, quelli dell’affetto prima e dell’amore poi, il tutto di pari passo con la ragazza; come conseguenza nasce anche la gelosia per i rapporti che Sibel ha avuto in passato e dei quali i ragazzi che l’hanno posseduta si vantano con il giovane: in occasione di una di queste discussioni Cahit uccide involontariamente un giovane e viene imprigionato; Sibel è accusata di aver portato “scandalo e disonore” alla famiglia ed è inseguita dal fratello che cerca addirittura di ucciderla. Ripara ad Istambul da una cugina che lavora in un grande albergo, ma tante e brutte avventura tornano a marchiarla: al termine troverà la pace con un altro uomo (il tassista che la salva dai teppisti?) dal quale avrà anche una bimba; è in queste nuove condizioni sociali e psicologiche che Cahit, uscito di prigione, la ritrova ad Istambul: tra i due scatta di nuovo la scintilla dell’amore (o della passione?) e, dopo due giorni trascorsi insieme scatta la richiesta del giovane a Sibel: vieni via con me. Lei non risponde, la vediamo fare la valigia a casa sua, ma sull’autobus che i due dovrebbero prendere insieme, c’è solo Cahit, lei è rimasta col marito e con la bambina.
Il film si divide in tre parti: la prima che ci mostra la personalità, il carattere e il disagio dei due giovani; la seconda che invece si svolge quando Cahit e Sibel stanno insieme e, un po’ alla volta, trovano l’amore e, attraverso questo, una loro nuova dimensione umana; la terza è centrata sull’incontro dei due – trascorsi circa dieci anni – con l’amore sempre vivo, ma anche con la rinuncia a questo sentimento che, se appagato, potrebbe fare del male ad altre persone e fare quindi ripiombare i due amanti allo stadio iniziale (egoismo, violenza verso gli altri).
L’amore invece ha fruttificato ed ha reso “diversi” questi due esseri disperati, conducendoli ad una sorta di accettazione del mondo e di quello che è; non più droga, non più violenza, non più sopraffazione: i due desiderano inserirsi e cogliere la felicità in quello che il mondo può loro offrire, per esempio a lei la gioia della maternità e a lui la ricerca dei natali nella cittadina turca mai visitata.
L’amore quindi come condizione essenziale ed irrinunciabile per la sopravvivenza in questo mondo di lotte etniche, di malvagità, di tradizioni sempre più violente: ma questo amore è malvisto dagli altri, da coloro che con il loro desiderio di sopraffazione non possono concepire la possibilità di instaurare questo sentimento che – in tutta la narrazione – è portato avanti soltanto dai due giovani (gli altri sono dediti ad altre cose, di natura sempre e soltanto materiale).
Nel film, girato da un regista di origine turca residente in Germania, c’è un grosso discorso sulle etnie che si vanno generando nei paesi destinatari della emigrazione: la Germania, con i suoi 4 milioni di turchi, è senza dubbio il teatro adatto per questo discorso.
L’autore, nel mostrare le varie generazioni di turchi, ci presenta anche la tradizione della loro terra che continua ad essere portata avanti dai vecchi, ma anche da coloro che vivono perennemente in simbiosi con la “famiglia” autentico clan che tutto decide e tutto stabilisce; non a caso Selim mette in moto tutto il marchingegno per sfuggire ad essa.
C’è poi la seconda generazione, quelli nati in Germania e che non sono oppressi dalla “famiglia – clan” che si mostrano totalmente diversi e più disponibili ad una integrazione che invece è nettamente rifiutata dagli altri.
Il film è ben fatto, forse un po’ troppo impregnato di situazioni forti e al limite, ma evidentemente all’autore serviva dare la botta nello stomaco allo spettatore per farlo meglio ragionare sul discorso di fondo del film.
Da notare, infine, che la narrazione è contrappuntata da una orchestrina folcloristica turca con una cantante che sembra narrare con le parole della canzone, alcune cose del film; quando tace e la musica resta sola a interpretare questa specie di “coro tragico”, è nella parte in cui più feroce e violenta è la vita narrata dal film; scelta espressiva di un qualche interesse, anche perché – pur essendo girato quasi interamente ad Amburgo - la piccola orchestra suona sulle rive del Bosforo, con alle spalle Istambul (cioè con la Turchia come scenario), quasi a voler ribadire la contrapposizione tra modernità tedesca e tradizione turca.