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domenica, settembre 12, 2004

Due parole sulla Mostra del Cinema di Venezia 

Dopo due settimane di permanenza al Lido di Venezia per la 61. Mostra del Cinema, mi corre l’obbligo di riferire, sia pure succintamente, su quello che ho potuto riscontrare e su quelle che sono state le mie impressioni sulla rassegna cinematografica.
Anzitutto due parole sull’organizzazione generale: il nuovo Direttore, Marco Muller, è in carica da poco più di quattro mesi e quindi la "sua" impronta si avvertirà appieno nella prossima edizione della Mostra. L’edizione di quest’anno è stata un ibrido, in parte frutto della precedente gestione – il tedesco De Haden – e in parte impostata dagli uomini della nuova direzione.
La prima cosa che balza agli occhi e che era stata rimproverata anche negli anni scorsi è la pletoricità del film presentati: "troppi film" è stato il grido di tutti, critici e pubblico, ma se sono stati presi accordi con autori e produttori, capisco che sia difficile disdirli. Comunque è vero, i film presentati nelle varie sezioni, sono stati troppi.
Alle sezioni ordinarie se ne è aggiunta una nuova, inventata da Quentin Tarantino e Joe Dante e che ha presentato una trentina di film italiani degli anni ’60 e ’70 cosiddetti di serie B, quelli cioè che ad un discreto successo di pubblico contrapponevano una stroncatura, anzi un ignorare, da parte della critica. L’interesse per la riscoperta di questi film - che detto tra noi, brutti erano e brutti sono rimasti – è soprattutto un interesse filologico ma quanto alla "riscoperta" resto dubbioso.
Per quanto riguarda i film in concorso, stroncature dalla Giuria per i film italiani (sia quello di Amelio che figurava tra i favoriti che quello di Placido che invece non lo era), nonostante che a metà circa della rassegna si fosse levata una voce di corridoio che voleva un film prodotto dalla RAI come vincitore della rassegna. Questa volta è stato smentito il detto andreottiano che a pensar male si fa peccato ma ci si indovina, perché qui non si è indovinato niente.
Il vincitore, un onesto e ben fatto film inglese, realizzato da un vecchio regista come Mike Leigh, dal titolo "Vera Drake" è centrato su aspetti di vita nei sobborghi londinesi con varie difficoltà per tirare avanti e con aspetti inquietanti della realtà di una donna di mezza età che giunge a decidere un aborto: tra i critici appena accennate alcune polemiche, subito sopite; sembrerebbe che l’aborto fosse ormai una cosa accettata da tutti e non più considerata un peccato, neppure dai critici di matrice cattolica.
Come atmosfera generale, posso ampliare quello che ho già accennato nel post di ieri: tutti si viveva come in una fiction e quindi anche le notizie – tragiche – che ci pervenivano, tipo l’eccidio di Beslan, venivano recepite inconsciamente come la trama di un film; solo tornati a casa ci siamo resi conto della reale portata degli eventi.
E quindi anche la polemica antiamericana iniziata da Moore e portata avanti, con minore impegno devo dire, da Wim Wenders e da Spielberg, sembra più che altro un entrare nel club degli antiamericani così come è di moda (lo slogan: se sei nel club sei "in" altrimenti sei "out").
Scarsa attenzione al cinema emergente – africano e latino americano – del quale sono state presentate opere scarsamente rappresentative e tutte centrate sulle difficoltà esistenziali dei giovani di quei paesi; ma i vecchi – mi sono domandato – non esistono da quelle parti?
Comunque bene la cinematografia europea che ha vinto il leone d’oro con il miglior film e con la migliore interpretazione sia maschile che femminile. Meglio di così!


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