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domenica, marzo 21, 2004

Le merendine 

Ho avuto occasione di registrare lo sfogo di una giovane madre che si è sentita attaccare dal suo pediatra circa il “modo” di alimentarsi del suo bambino.
Il problema è molto semplice: la signora, onestamente, ha confessato che il bambino mangia sulla scorta di quanto gli propina la pubblicità (merendine, succhi di frutta, snack, hamburger, ecc.); il pediatra – non più giovanissimo – ha controbattuto, puntando su cibi genuini (almeno in partenza), quali pane e olio, spremute di frutta, carne di ogni genere e tipo, mangiata con cotture varie.
Ma chi ha ragione in questa diatriba?
Come al solito, entrambi hanno una parte di ragione.
Il pediatra che inneggia alla perduta genuinità, combatte una battaglia più grande di lui e si presenta – da solo – contro le multinazionali, appoggiate da Uffici Marketing agguerritissimi e da cifre iperboliche per la pubblicità.
La mamma, dal canto suo, è una donna che lavora, sente il peso della sua assenza dalla famiglia e ritiene di porvi rimedio – sia pure parzialmente – riempiendo tutti (e quindi anche il figlio, forse soprattutto) con le porcherie proposte dalla pubblicità, la quale – badate bene – fa leva su questa sorta di complesso di colpa e, a livello inconscio ovviamente, trasmette alla donna lavoratrice il seguente messaggio: “tu che lavori e fai mancare la tua presenza a marito e figlio, puoi in parte “redimerti” comprando per loro le merendine XXX e gli hamburger YYY”.
Lo so che è un modo scorretto di fare pubblicità, ma il bisogno impellente di consumare ha portato la nostra civiltà a far leva su oscuri sentimenti di colpa (come se lavorare fosse un peccato) e trarre da questi gli stimoli giusti per un sempre maggiore acquisto di…cose delle quali potremmo fare a meno.
Quindi, il pediatra ha ragione a propagandare il cibo genuino, ma così facendo induce la mamma ad avere sempre più complessi di colpa e, infine, a non capire più che cosa si voglia da lei. Insomma, la battaglia del medico contro i mass media – segnatamente la pubblicità televisiva – è persa in partenza (purtroppo); il problema è che non se ne rende conto e quindi non tenta neppure di aggiustare il tiro per vedere se riesce a far breccia in qualche altro modo.
In fin dei conti chi sconta questa “guerra” sono i bambini che crescono obesi e con il fegato a pezzi già ad un’età che in altre epoche non si prendeva neppure in considerazione.
E tutto questo sull’altare del consumismo, del superfluo e del “sempre più”, alla faccia di chi – anche in questa ricchissima civiltà dei consumi – continua a morire di fame all’età in cui i nostri bambini cominciano le prime analisi al fegato.


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