sabato, marzo 06, 2004
La globalizzazione nei servizi
Eravamo ormai abituati a subire la cosiddetta globalizzazione nel campo della produzione delle merci; mi spiego meglio: gli stessi pantaloni (o almeno sembrano) vengono prodotti in Cina oppure a Taiwan o comunque in una area sottosviluppata e vengono a costare un quinto di quanto ci vorrebbe se fossero fabbricati in Italia (o comunque in Europa).
Per questa ragione, ci è stato detto, ben venga la globalizzazione, se è capace di ridurre i costi dei prodotti; non è che tali diminuzioni vengano avvertite dai consumatori, poiché tra maggior guadagno degli intermediari, spese varie, cambi di moneta (lira contro euro, passando per lo yuan e lo yen), l’utilizzatore finale del prodotto paga sempre un po’ di più, anno dopo anno.
Questo per la produzione, ma ora il problema si affaccia in forma massiva anche nei servizi, cioè siamo riusciti – attraverso lo sviluppo della tecnologia delle comunicazioni – a “produrre” i servizi che vengono utilizzati in Italia, presso un realizzatore che è a migliaia di chilometri di distanza.
Primi esempi di tali sviluppi produttivi sono stati i realizzatori di software; in pratica un ingegnere elettronico pachistano o indiano, pur rendendo meno di un americano o di un europeo, costava un decimo e produceva grosso modo lo stesso lavoro.
Quindi, dato per assunto che la casa madre (la softerhouse, come si dice) indichi le linee di sviluppo, l’attività di routine, quella terra terra, viene svolta da fior di ingegneri asiatici che si accontentano di guadagnare in un anno quanto il collega statunitense guadagna in un mese; e non c’è da dire che l’indiano faccia la fame, tutt’altro, anzi conduce una vita se non da nababbo almeno da alto borghese.
Dopo questo primo inizio, tante altre sono le attività che il terzo mondo svolge per conto dei paesi sviluppati: per esempio la fatturazione delle grandi aziende avviene quasi interamente con questo sistema, anche alcune contabilità vengono spostate all’estero. vista la possibilità di collegamento attraverso reti, internet o altro.
L’ultimo esempio di questo “sviluppo” 8almeno per quanto a mia conoscenza), sono le radiografie che un grande Ospedale americano ha “appaltato” ad un radiologo indiano al quale è stata fornita tutta una sofisticata e costosa attrezzatura che lo mette in grado di operare come se fosse in America. Il tutto, nonostante le costosissime spese di impianto, si è rivelato un grande affare sotto il profilo economico.
Come considerazione finale, potremmo dire che la “globalizzazione”, messa in piedi inizialmente dalle multinazionali per andare alla ricerca di costi di mano d’opera molto vicini allo zero (in pratica siamo alla ricerca dello “schiavo”), potrebbe rivoltarsi contro gli stessi primi ideatori e far si che i paesi sottosviluppati entrino in possesso di gradi di conoscenza superiore, attraverso non la normale routine di scambio ma “rubandole” da quello che gli viene fornito come materia prima da sviluppare.
In pratica si tratterebbe di “copiare” tutta una serie di sistemi all’avanguardia che possono sfuggire al controllo degli occidentali. Una volta in possesso del materiale da sviluppare e con la mano d’opera a basso costo che hanno, sarà ben difficile confrontarsi con loro.
Per questa ragione, ci è stato detto, ben venga la globalizzazione, se è capace di ridurre i costi dei prodotti; non è che tali diminuzioni vengano avvertite dai consumatori, poiché tra maggior guadagno degli intermediari, spese varie, cambi di moneta (lira contro euro, passando per lo yuan e lo yen), l’utilizzatore finale del prodotto paga sempre un po’ di più, anno dopo anno.
Questo per la produzione, ma ora il problema si affaccia in forma massiva anche nei servizi, cioè siamo riusciti – attraverso lo sviluppo della tecnologia delle comunicazioni – a “produrre” i servizi che vengono utilizzati in Italia, presso un realizzatore che è a migliaia di chilometri di distanza.
Primi esempi di tali sviluppi produttivi sono stati i realizzatori di software; in pratica un ingegnere elettronico pachistano o indiano, pur rendendo meno di un americano o di un europeo, costava un decimo e produceva grosso modo lo stesso lavoro.
Quindi, dato per assunto che la casa madre (la softerhouse, come si dice) indichi le linee di sviluppo, l’attività di routine, quella terra terra, viene svolta da fior di ingegneri asiatici che si accontentano di guadagnare in un anno quanto il collega statunitense guadagna in un mese; e non c’è da dire che l’indiano faccia la fame, tutt’altro, anzi conduce una vita se non da nababbo almeno da alto borghese.
Dopo questo primo inizio, tante altre sono le attività che il terzo mondo svolge per conto dei paesi sviluppati: per esempio la fatturazione delle grandi aziende avviene quasi interamente con questo sistema, anche alcune contabilità vengono spostate all’estero. vista la possibilità di collegamento attraverso reti, internet o altro.
L’ultimo esempio di questo “sviluppo” 8almeno per quanto a mia conoscenza), sono le radiografie che un grande Ospedale americano ha “appaltato” ad un radiologo indiano al quale è stata fornita tutta una sofisticata e costosa attrezzatura che lo mette in grado di operare come se fosse in America. Il tutto, nonostante le costosissime spese di impianto, si è rivelato un grande affare sotto il profilo economico.
Come considerazione finale, potremmo dire che la “globalizzazione”, messa in piedi inizialmente dalle multinazionali per andare alla ricerca di costi di mano d’opera molto vicini allo zero (in pratica siamo alla ricerca dello “schiavo”), potrebbe rivoltarsi contro gli stessi primi ideatori e far si che i paesi sottosviluppati entrino in possesso di gradi di conoscenza superiore, attraverso non la normale routine di scambio ma “rubandole” da quello che gli viene fornito come materia prima da sviluppare.
In pratica si tratterebbe di “copiare” tutta una serie di sistemi all’avanguardia che possono sfuggire al controllo degli occidentali. Una volta in possesso del materiale da sviluppare e con la mano d’opera a basso costo che hanno, sarà ben difficile confrontarsi con loro.